Un nuovo anno che si apre porta con se attese e propositi, il desiderio che ciò che è capitato di negativo nell'anno appena finito non si ripeta più. Insomma, per un momento ci  sforziamo di credere che si ricomincia da capo, che tutto potrà essere migliore e più bello. Si brinda, si scambiano gli auguri nella speranza che non sia un semplice girare del giorno e della notte, un banale cambio di calendario, ma segni il transito verso la felicità. Come uomini abbiamo bisogno di questi riti di passaggio, di questo chiudere e di riaprire, di questo sporgersi con fiducia verso il futuro. E' quello che ci aiuta a vivere in un mondo affascinante ma complicato e nel quale non si è sempre nel dolore e nelle difficoltà, ma non si può essere nemmeno sempre felici. E allora l'augurio che ci possiamo fare è di alimentare per tutti i prossimi 364 giorni le nostre speranze e i nostri migliori propositi, nella consapevolezza che non esiste alcuna alchimia in grado di cambiare, come per magia, le nostre storie, ma abbiamo una grande responsabilità nel costruire per noi stessi e per i nostri simili giorni di autentica meravigliosa umanità.  

(Venerdì, 1 gennaio 2010)

Con il furto di ieri dell'insegna del campo di concentramento di Auschwitz, patrimonio dell'umanità e bene protetto dall'Unesco, è stato profanato un tempio, un tempio del dolore e della sofferenza dove si è concentrato tutto il male che un uomo può fare ad un suo simile. Un luogo sacro che non avrebbe dovuto essere violato, perchè la memoria delle atrocità che sono state commesse deve continuare ad essere un monito, sopratutto per i giovani, affinchè nessun potere, nessun governo, nessun essere umano possa sprofondare di nuovo in quell'abisso di abiezione e di crudeltà. Ma forse proprio la rimozione della memoria è l'intento che ha animato i criminali che hanno rubato la scritta "Arbeit macht frei" (Il lavoro rende liberi). Il valore simbolico di quel motto, posto all'ingresso di un campo dove chi entrava non aveva in pratica alcuna possibilità di uscirne vivo, e del terribile imbroglio che rappresentava è altissimo e averlo portato via significa tentare di oscurare il riferimento ad un male assoluto che poco più di sessanta anni fa è stato prima teorizzato e poi scientificamente realizzato nel cuore della nostra Europa. Qual'era il lavoro che rendeva liberi, quello magari dei deportati che alla fine della giornata erano costretti a trascinare i compagni che non ce l'avevano fatta, stremati dalla fatica e dagli stenti, o quello degli aguzzini delle camere a gas o dei forni crematori?

Ci sono ormai tantissimi inquietanti segnali, nel nostro paese e in tutta Europa, di un risveglio di gruppi che proprio in quel male trovano il loro punto di riferimento. Fa veramente rabbrividire sapere che ancora, dopo tutto quello che ci è stato raccontato, ci siano ancora persone che si richiamano a quella ideologia che intorno allo sciagurato principio di purezza della razza e al progetto di soppressione, prima morale e poi fisica, del "diverso" ha costruito il suo potere mortifero. Questi segnali non possono e non debbono essere sottovalutati, non bisogna credere di essere di fronte solo a sparute minoranze che, magari ai margini della società e della storia, si nutrono di slogan per uscire fuori da una quotidianità anonima. Anche allora erano in pochi ma poi...hanno trascinato verso la morte e la distruzione milioni di uomini.

(Sabato, 19 dicembre 2009)

Ricordiamo Paolo Borsellino a diciassette anni dalla strage di via D'Amelio e preghiamo per lui e per tutte le vittime della violenza mafiosa.

 

 

 

 

 

(Domenica, 19 luglio 2009)

L’altra sera ho visto il film “L’ultimo pellerossa” di Y. Simenau. Racconta la storia di come, quasi sul finire dell’ottocento, gli Stati Uniti d’America espropriarono le terre degli indiani nativi d’America. Quelle terre erano tutto per gli indiani, assicuravano loro la sopravvivenza materiale, ma anche spirituale perché alcune erano veri e propri luoghi sacri e di culto. Con l’inganno di accordi poi non mantenuti, ma soprattutto con la violenza delle armi, i nativi furono costretti ad abbandonare i territori che da secoli occupavano con le loro tribù ed a insediarsi nelle riserve dove furono preda di fame e malattie. Si consumò un vero e proprio genocidio nel nome delle strade ferrate e del progresso. E’ una storia che andrebbe raccontata anche nelle scuole perché i ragazzi dovrebbero sapere da dove veniamo, qual è stato il prezzo della modernità e come intere popolazioni e culture furono violentate e sradicate. Ma, la storia la scrivono sempre i vincitori.

Bisognerebbe anche avere il coraggio di chiedere scusa e riconoscere equi risarcimenti ai discendenti di quei popoli, alcuni dei quali coraggiosamente hanno ancora la forza di combattere battaglie legali contro il governo degli Stati Uniti.

Facendo il parallelo, viene poi da pensare alle “grida”, ormai quotidiane, sui pericoli dell’invasione dei migranti, che con le “carrette del mare” sbarcano sulle nostre coste alla ricerca di un po’ di fortuna, ed ai conseguenti provvedimenti dei diversi “pacchetti sicurezza”. Chissà quali pacchetti sicurezza avrebbero adottato, se avessero potuto, gli indiani nativi d’America e tutti i popoli prevaricati con la violenza, in nome della civiltà, contro gli invasori europei?

(Giovedì, 23 aprile 2009)

Mi capita spesso di sentire “forti” richiami all’unità da parte di politici di ogni colore, di parroci, di personalità varie. E mi capita sempre più spesso di chiedermi che significato abbiano. Anche lo scorso giovedì sera qualcuno diceva: “dobbiamo camminare uniti, perché se ognuno rema per fatti suoi non si va da nessuna parte”. Così mi chiedo se, oltre all’abbondante retorica di cui sono infarcite, frasi come questa nascondano o, meglio, rendano evidente la voglia di vedere tutti omologati al pensiero unico, che poi è quello di chi di volta in volta, nell’ambito in cui opera, detiene le leve del comando. Allora c’è molto da riflettere, perché può capitare a chiunque esprima un pensiero leggermente diverso, un modo alternativo di guardare ed interpretare la realtà, di essere accusato di disfattismo, di agire contro il bene comune, di rompere l’armonia. Una tale condizione è di una pericolosità sociale estrema. Probabilmente si confonde, o si manipola, il concetto di unità con quello di conformismo. L’unità, d’altro canto, può non essere un valore in assoluto: si può essere uniti anche nel compiere il male. L’unità può diventare un valore se deriva dall’ascolto reciproco, dalla valutazione e dalla sintesi delle diverse posizioni e anche in quest’accezione bisogna, comunque, riconoscere il diritto e la libertà a ciascuno di non condividere, di dissociarsi. Proprio in questa libertà risiede la coscienza dell’uomo, la sua capacità di discernere e di scegliere. Proprio questa libertà ha donato il Signore agli uomini, quando nel giardino dell’Eden “concesse” ad Adamo e Eva di mangiare dell’albero della conoscenza.

(Lunedì, 13 aprile 2009) 

In Abruzzo il ladro è arrivato di notte, nascosto nel buio, invisibile, implacabile. Senza farsi scoprire, ha stroncato il sonno della città e dei paesi, ha rubato vite e anime. E’ passato come l’angelo della morte per annientare desideri e speranze, prendendosi, per non restituirla mai più, la normale quotidianità delle persone fatta di piccoli e grandi gesti, di miseria e nobiltà. Il ladro poi è scappato e nessuno lo prenderà mai per fargli restituire il maltolto. Li ha lasciati nudi, increduli e sofferenti, con una sola domanda che affiora sulle labbra: perché?

Così è iniziata la Settimana Santa, con migliaia di persone che hanno vissuto e vivranno la loro terribile passione, sgomente davanti a un destino che non potevano mai pensare di dover affrontare. Così proseguirà questa Settimana Santa, con l’unica cosa che possiamo fare: offrire la nostra solidarietà e pregare per la loro resurrezione.

(Martedì, 7 aprile 2009)

In questi giorni pieni di parole lanciate come macigni, di giudizi e condanne feroci e senz’appello, forse servirebbe un po’ più di carità. Soprattutto per chi crede in Cristo, esercitarsi nella carità può servire ad allontanarsi dalla tentazione di sentirsi "padri-eterni", soli e assoluti possessori della verità rivelata. Ma, anche per chi non crede, la carità può essere vissuta come una virtù laica che tutto comprende e tutto libera.

Per non aggiungere altre parole personali alle tante già in circolazione, riporto solo i versetti del capitolo 13 della prima lettera di San Paolo ai Corinzi che nella nuova traduzione della Conferenza Episcopale Italiana è intitolato “Inno alla carità”.

"1Corinzi 13Inno alla Carità1Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cembalo che strepita.

2E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.

3E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

4La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

8La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. 9Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. 10Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11Quand’ero bambino, parlavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.

12Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. 13Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!"

(Giovedì, 12 febbraio 2009)

La vicenda di Emanuela Englaro, la ragazza che dal 1992 vive in uno stato di incoscienza, ha destato un acceso dibattito, soprattutto dopo la recente sentenza della Corte di Cassazione che in pratica ha dato il via libera all’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale. E’ un confronto acceso, quasi di natura ideologica, tra chi considera lo stop alle macchine alle quali è attaccata Emanuela un omicidio e chi è convinto che invece si tratta di un gesto di alta dignità e civiltà. Volano anche accuse e affermazioni pesanti, assolutamente fuori luogo, verso il papà di Emanuela che, suo malgrado, è esposto a un circo mediatico che inesorabilmente tutto trasforma e deforma.

               Ma  oltre alle due posizioni se ne può rivendicare una terza, quella di non esprimere giudizi, di vivere la storia solo con un profondo senso di pietà, di permettere l’oblio affidandosi esclusivamente alla preghiera.

(Sabato, 22 novembre 2008)     

Il tempo di settembre è stato sempre un tempo diverso da tutti gli altri dell’anno. E’ un tempo al quale rimandiamo i nostri cambiamenti, è un tempo in cui ci ripromettiamo di dare una svolta alle nostre vite. E’ un tempo durante il quale tutto è riprogrammato, tutto riparte per una nuova stagione di progetti e di impegni.

              Le ferie sono volate via come un tempo sospeso durante il quale abbiamo provato a scaricare le tossine accumulate e a ritemprarci psicologicamente e fisicamente, un tempo dove non siamo stati inseguiti da scadenze, dove ci siamo riappropriati della nostra libertà.

              Ed ora eccolo qui, settembre. In tutta la sua bellezza e potenza ad interrogarci sui nostri propositi, a chiedere di rimetterci in gioco, a sfidarci su ciò che avevamo promesso, a testare la solidità della nostra voglia di cambiare. Nonostante sapevamo benissimo che sarebbe inesorabilmente arrivato, come sempre, ci trova spiazzati, malinconici e di nuovo immersi nel già fatto, nel già visto, in quella terribile routine che è capace di soffocarci e deprimerci.  E’ come uno schiaffo in piena faccia che rischia di svegliarci dai nostri sogni per abbandonarci esclusivamente alla realtà di ogni giorno che per un attimo ci è parso possibile dimenticare.

             Dobbiamo fare uno sforzo per attutire lo schiaffo, per impedire che ci privi del nostro diritto a sognare e a immaginare le nostre vite ricolme di bellezza, di quella bellezza che da sola può dare un senso a tutto e che promana dalla nostra anima quando è finalmente libera di volare oltre i confini della quotidianità, per continuare davvero a desiderare un tempo nuovo

(Domenica, 7 settembre 2008)

          Ogni tanto è bene rallentare l’incedere, spesso routinario, delle nostre vite per riflettere sul senso dell’esistenza, per fare un bilancio su quello che siamo stati e su ciò che siamo. L’evolversi e i risultati di queste “pause di riflessione” dipendono dalla profondità alla quale siamo disposti a spingerci per scandagliarci e riscoprirci. E’ comunque un esame difficile e complesso, è un guardarsi senza premettere difese, qualche volta può essere anche molto doloroso.

          Quante attese deluse, quanti programmi falliti, quante cose e scelte non fatte, quanti incontri e rapporti persi. Non credo, come molti sostengono, che un uomo per vivere debba fare a meno di piccoli e grandi rimpianti, perché fanno parte di se ed escluderli equivarrebbe ad esercitarsi in un continuo cinismo, in un andare avanti senza la possibilità e la voglia di riesaminare, capire, criticare le ragioni delle strade che abbiamo imboccato davanti ai bivi incontrati.

         A un certo punto magari ti chiedi come sei capitato e cosa ci fai in questo mondo, se non sei forse solo un piccolo inutile agglomerato di cellule perso in un universo grandissimo che neanche sa di te e che prima o poi ti inghiottirà.

        E qui che, quasi distrutto e smarrito in un immenso buco nero, arriva ciò che sostanzia di speranza la tua esistenza e che ti fa capire che non sei solo: la luce della fede in un Creatore che deve avere un disegno per ognuno di noi. Tu allora Gli chiedi di svelarti il Suo disegno per te, di farti aprire gli occhi, le orecchie, la mente, per vederlo, sentirlo, capirlo e la forza e il coraggio per seguirlo. In quello stesso istante tuo figlio ti schiocca un bacio sulla guancia dicendoti che ti vuole bene e un amico ti chiama al telefono per dirti che ha bisogno di te.

(Sabato, 26 luglio 2008)

Ieri, nell’auditorium della scuola media di Chiaravalle Centrale, abbiamo vissuto una straordinaria esperienza. L’occasione ci è stata offerta dalla presentazione del libro di Giovanni Sestito “Quando incontrerò Dio, gli chiederò...”. E’ stata una serata piena di magia e sensazioni forti.

La prima magia pura è stata quella dell’incontro, del ritrovarsi nel nome di un grande amico comune, Giovanni, con il quale in questi anni abbiamo scritto pagine preziosissime delle nostre vite. Solo questa emozione sarebbe stata in grado di dare un senso non solo a tutto quello che è avvenuto dopo, ma anche a tutto ciò che abbiamo vissuto prima.

Tuttavia non ci si poteva fermare, non era possibile accontentarsi di quel primo godimento, bisognava essere ingordi per farsi catturare docilmente dalla bellezza delle parole e della musica che ne sarebbero seguiti. Ed è stata una bellezza totale. Quando gesti, sentimenti, melodie si fondono in un messaggio di grazia e gentilezza è impossibile rimanere indifferenti.

               Una delle cose più splendide della serata è stata quella di scoprire quanti talenti possiede la nostra Chiaravalle, talenti spesso nascosti ma che ieri abbiamo potuto apprezzare con grande soddisfazione. Dai musicisti Giampaolo e Vincenzo Macrì, Paola Sangiuliano, al tenore Sergio Sangiuliano alla lettrice Caterina Menichini, alla piccola Nilde Fera è stato un dispiegarsi continuo di meravigliose sorprese che ci hanno deliziato, facendoci comprendere quanto il nostro piccolo mondo può diventare sorgente di armonia e gioia di vivere.

               Per questo ti diciamo grazie, caro Giovanni, un grazie di cuore.

(Domenica, 29 giugno 2008)

Nel convegno “La bellezza delle cose imperfette” di sabato 17 maggio organizzato dal Lion club “Squillace-Cassiodoro”, durante il quale è stato presentato il libro di poesie di Giovanni Sestito, i relatori, dai loro diversi punti di vista, hanno affrontato il tema della disabilità fisica come paradigma dell’imperfezione. Tutti gli interventi sono stati di estremo interesse, ma devo dire che mi aspettavo un respiro più ampio che andasse oltre la rappresentazione della sola disabilità fisica.

Ho molto apprezzato il titolo del convegno ritrovando in esso la sintesi della condizione di tutte le nostre esistenze e di tutto ciò che ci circonda. Siamo imperfetti nei nostri corpi, perché anche quelli più belli possono ammalarsi, sono imperfette le nostre relazioni familiari e sociali, sono imperfetti i nostri sentimenti e le nostre professioni di fede o i nostri rifiuti a credere. L’imperfezione è lo stato del nostro essere e del nostro vivere.

Una delle relatrici del convegno ha tenuto a precisare che le persone perfette sono comunque antipatiche. L’uomo perfetto però non esiste se non nella concezione astratta delle nostre menti. Faremmo anzi bene a liberarci da queste raffigurazioni ideali e a prendere coscienza dell’imperfezione in cui siamo immersi e di cui siamo portatori. Sappiamo poi bene a quali conseguenze nefaste può condurre il mito del super uomo e della perfezione.

Assumere piena consapevolezza della nostra imperfezione ci consentirebbe peraltro di vivere le nostre relazioni in maniera più serena e senza pretendere dall’altro ciò che non appartiene alla nostra condizione umana e che non siamo personalmente in grado di offrire, la perfezione, appunto.

La bellezza dell’imperfezione risiede proprio nella sua reciprocità, nella possibilità che offre a tutti noi di comprenderci a vicenda se riusciamo ad assumerla come chiave delle nostre vite. E di questa imperfezione possiamo anche innamorarci.          

(Giovedì, 29 maggio 2008)

 

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