sabato, 06 maggio 2006

“La partecipazione alla vita comunitaria non è soltanto una delle maggiori aspirazioni del cittadino, chiamato ad esercitare liberamente e responsabilmente il proprio ruolo civico con e per gli altri, ma anche uno dei pilastri di tutti gli ordinamenti democratici, oltre che una delle maggiori garanzie di permanenza della democrazia” (n° 190 del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa).

La natura della partecipazione è strettamente connessa a quella della cittadinanza, perché esprime lo status del cittadino: quello di essere parte attiva nella costruzione della comunità in cui vive. Ambedue i concetti possono essere definiti richiamando quelli che sono i loro stessi elementi costitutivi: ladempimento dei doveri e l’esercizio dei diritti.   

            Tale premessa serve per sgombrare il campo da una concezione della cittadinanza troppe volte piegata solo sul versante dei diritti (molto spesso particolaristici), concezione che non ha mancato di creare guasti e che ha rallentato, se non impedito, nella nostra terra di Calabria, il cammino verso una società civile matura.

            La correlazione tra diritti e doveri è essenziale alla cittadinanza perché denota la consapevolezza del proprio posto nella società e, quindi, la pienezza dell’essere cittadini. E’ una correlazione intima che non tollera scissioni o sdoppiamenti, ma che pretende di coinvolgere la persona nella sua unità. Non esiste nello stesso soggetto un cittadino che talvolta esercita diritti e altre adempie doveri, quasi come esercizi separati in compartimenti stagni con distinte modalità comportamentali, ma cittadinanza e partecipazione richiedono, pena un loro grave vulnus, l’integrità della persona nella sua particolare qualità di soggetto sociale. La forza con la quale vengono pretesi i diritti deve essere coerentemente uguale a quella con la quale si adempiono i doveri e non si può abdicare da alcuno dei due.

            Ma quale deve essere la misura della cittadinanza nelle nostra comunità calabrese?

            In Calabria è sicuramente necessario recuperare i valori della cittadinanza e della partecipazione e ripristinarli nel corpo sociale, dove sono spesso esaltati solo in occasione dei confronti elettorali, ma hanno difficoltà ad affermarsi nella quotidianità.

            Si tratta di una operazione che richiede fede e fatica, che va intrapresa ripartendo dall’annuncio evangelico e ponendo in primo piano la dimensione essenziale della corresponsabilità.

            Infatti non esiste né cittadinanza, né partecipazione, senza corresponsabilità. Il cittadino autentico è colui che crede di avere un ruolo nella società in cui si trova e che si sente, per la propria parte, responsabile di ciò che succede. Per troppo tempo come calabresi siamo stati sottratti o, forse, ci siamo sottratti consapevolmente e convenientemente alle nostre responsabilità. Abbiamo preferito conferire delle deleghe in bianco e coltivare i nostri individualismi.

            Occorre, quindi, un surplus di impegno e di sforzo per riprenderci il terreno perduto, per riappropriarci del nostro status di cittadini, per essere finalmente responsabili, secondo un percorso che parte dalle nostre scelte personali, ma che inevitabilmente è destinato a incunearsi nel profondo del tessuto sociale. 

            Un primo passo da fare è quello di disarticolare e capovolgere il rapporto tra privato e pubblico che domina nella prassi, cioè quello che il privato è personale, mentre il pubblico è di nessuno. Ribaltare questa concezione e riportare a considerare il pubblico come bene di tutti e che tutti siamo chiamati a curare, rappresenterebbe una rivoluzione culturale che, tra l’altro, consentirebbe di combattere quelle strutture che alimentano i peccati sociali che infettano il nostro stare insieme, cioè quei peccati che si pongono contro la giustizia e l’equità tra gli uomini.

            E’ la fedeltà al Signore che ci richiama alla fedeltà verso gli uomini e, quindi, a promuovere la giustizia in tutte le situazioni ed, in particolare, in quelle nelle quali è più a rischio.

            Un secondo passo è costituito dall’assumere la consapevolezza che il proprio personale coinvolgimento nelle dinamiche della società non rappresenta un’indebita ingerenza in un terreno a noi estraneo, ma costituisce lo sviluppo naturale del nostro essere qui e ora nella storia ed un preciso irrinunciabile nostro diritto-dovere. In altre parole dobbiamo scegliere di essere protagonisti.          

            Il terzo passo deve essere orientato verso la dimensione comunitaria del nostro stare nella società. La nostra azione, per essere efficace, ha bisogno di quella degli altri, il nostro protagonismo non deve rimanere isolato, ma promuovere ed incontrare ulteriori protagonismi. In altre parole partecipare, condividere, amare. La nostra cittadinanza assume, quindi, un valore politico destinato ad incidere sulle scelte che riguardano il futuro della nostra terra. Salute, lavoro, giustizia, ambiente non saranno più variabili indipendenti dalla nostra volontà, effetti di fattori esogeni che siamo costretti a subire, ma dipenderanno anche dalle opzioni che maturiamo e poi realizziamo come cittadini, come padroni di casa e non come ospiti. Da qui l’importanza delle cosiddette organizzazioni sociali, delle associazioni di volontariato, dei cosiddetti corpi intermedi, che devono finalmente riuscire a svolgere la loro missione di cooperazione, di interlocutori attenti dei livelli istituzionali, anche pronte, ove necessario, alla denuncia, rifuggendo la tentazione di operare nell’ottica esclusiva, fine a se stessa, ma non alla crescita complessiva della società, di accaparrarsi risorse e benefici.

            Discende da tutto ciò l’esigenza di adottare comportamenti personali e comunitari coerenti, perché non si può pretendere giustizia se noi stessi non siamo operatori di giustizia, non si può pretendere l’esercizio dei diritti laddove noi stessi neghiamo diritti e non adempiamo ai doveri.

            La cittadinanza e la partecipazione richiamano poi il ruolo della comunità politica. Al numero 389 del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa è riportato: “La comunità politica persegue il bene comune operando per la creazione di un ambiente umano in cui i cittadini sia offerta la possibilità di un reale esercizio dei diritti umani e di un pieno adempimento dei relativi doveri” Si deve evitare che, attraverso la preferenza data alla tutela dei diritti di alcuni individui o gruppi sociali, si creino posizioni di privilegio”.

            Come cittadini dobbiamo da un lato vigilare affinchè la comunità politica-istituzionale si preoccupi di perseguire sostanzialmente, e non solo formalmente, il bene comune, dall’altro siamo chiamati a stimolare la stessa comunità con il nostro protagonismo.

            La Calabria ha innumerevoli bisogni. Non servono solo infrastrutture materiali, ma occorre un nuovo modo di guardare alla politica come servizio all’uomo ed alla Calabria nel loro insieme, rifuggendo  dagli interessi particolaristici e da ogni sorta di familismo amorale. Bisogna sviluppare dei veri e propri piani regolatori sociali che si prendano cura delle moltissime situazioni di marginalità e di devianza che contraddistinguono la nostra terra. E’ indispensabile costruire una nuova forte coesione sociale fondata sulla giustizia e sul rispetto della legalità. 

            Tutto ciò è compito della politica, ma è anche compito di tutti i calabresi che vogliono scrivere una pagina nuova della loro storia, una pagina da protagonisti.   

                       

 

Sabato 9 giugno 2007

Caro George,
    ti scrivo queste poche righe, anzitutto, per darti il benvenuto nel nostro paese. Desidero, però, cogliere l’occasione per dirti due o tre cose. Lo so, tu sei considerato il padrone del mondo. Secondo le categorie umane del potere ciò risponde a verità e sicuramente non avrai tempo per ascoltare le riflessioni di uno qualsiasi come me. Ma proprio la tua posizione di dominio ti carica di responsabilità sull’intero pianeta. Image

    Ti carica di responsabilità per una guerra senza senso innescata per “esportare la democrazia”, ma che ha provocato e provoca migliaia di vittime innocenti, che ha devastato un intero paese trasformandolo in una zona franca del terrorismo internazionale, che rischia continuamente di suscitare uno scontro di civiltà in nome di un Dio che viene strumentalizzato per realizzare ogni tipo di violenza.
Ma George, ti ricordo che Dio è il Signore della pace e della fratellanza tra i popoli e non può essere utilizzato come vessillo per portare e giustificare la guerra ed il terrorismo in ogni dove. Spero che oggi Papa Benedetto XVI ti abbia ricordato ciò, lui che ha potuto parlarti viso a viso.

    Ti carica di responsabilità quando ti rifiuti di firmare accordi globali sul clima, ma poi trovi con gli altri “grandi” ridicoli compromessi per la riduzione delle emissioni entro il 2050. Ma che significa entro il 2050? Passeranno altre due generazioni, qualche scienziato dice che continuando di questo passo la terra non sarà in grado di sopportare la pressione dell’uomo per altri quaranta anni. Allora bisognerebbe avere il coraggio di dirlo chiaro: la produzione e l’economia devono dominare su tutto, continuare a distruggere, generare guerre per il controllo delle risorse energetiche, inquinare, riscaldare, provocare malformazioni e malattie terribili. Tutto il resto viene in subordine. L’umanità può benissimo andare alla deriva.

    Ti carica di responsabilità quando ti rifiuti di riconoscere le norme di diritto internazionale per gli atti dei tuoi militari, mentre sei pronto ad additare e condannare i nemici come autori di crimini contro l’umanità.

    Caro George, io però ho fiducia che tu presto possa capire che così non va e che ti devi impegnare insieme agli altri “capi” per raddrizzare le sorti dell’umanità. So che puoi farcela. Basterebbe un po’ di buon senso, capire che i destini dei popoli sono legati indissolubilmente gli uni con gli altri, l’amore vero verso quel Dio che dici di conoscere e che, come padre di tutta l’umanità, desidera la vita e non la morte di ogni suo figlio.

    Coraggio Bush, comincia a tifare anche tu per la pace, vedrai che saremo tutti più felici.

Sabato 26 maggio 2007  camera_emiciclo

                Negli ultimi giorni si è acceso il dibattito sulla distanza tra cittadini e i politici. Tutti i sondaggi dicono che i cittadini non si fidano della politica perché la percepiscono come assolutamente lontana dai loro bisogni. E’ un disagio reale poiché, aldilà dei sondaggi, basta parlare con la gente per avvertire un senso, non mi sento di esagerare, quasi di nausea nei confronti della classe politica. Siamo vicini ai livelli dei primi anni  ’90. Sappiamo bene come andò poi a finire. 

               Spesso la risposta difensiva è che sono posizioni qualunquistiche, o come è avvenuto qualche giorno fa a Palermo, in occasione delle cerimonie per il 15° anniversario della strage di Capaci, quando Giuliano Amato ha dato del “giustizialista ingiusto” e dell’emotivo ad un giovane studente che gli ricordava come nel Parlamento sedessero ben 25 condannati.

               Può anche essere vero che ci sia in alcuni un pizzico di qualunquismo, ma la sfiducia sta attanagliando anche persone che amano la politica, quella vera, e che hanno posizioni ed idee forti.

               Il punto è che se la politica non sa riformarsi dal suo interno, allora o arriverà un altro intervento forte della magistratura come tangentopoli, o vincerà l’antipolitica come il Berlusconismo.

               Proverò qui a descrivere tre mali della politica, tentando però di suggerire qualche possibile rimedio.

               Autoreferenzialità: I politici si parlano spesso addosso, secondo un linguaggio di casta mirato esclusivamente all’occupazione ed allo scambio delle caselline del potere. Ciò fa perdere il contatto con i cittadini e con i veri problemi che rimangono irrisolti e che anzi si incancreniscono. Quello che sta succedendo in Campania per l’emergenza rifiuti è drammaticamente emblematico. I cittadini andrebbero coinvolti ed ascoltati sempre e non solo quando appaiono utili perché devono esprimere un voto. Sia a livello nazionale che a livello locale vanno promosse e sviluppate forme di audit civico in modo da fare il punto sulla realizzazione dei programmi di governo e del grado di soddisfazione dei cittadini. In pratica le famose “verifiche” andrebbero realizzate per capire la bontà dell’azione di governo, non per trovare il posto al sole per qualcuno.

               Carrierismo: La politica è diventata una forma di lavoro. A livello centrale e periferico ci sono centinaia di persone che hanno fatto della politica la loro professione e che vivono di essa. Ciò porta a difendere il potere con ogni mezzo, a chiudere gli spazi di partecipazione ed a perdere di vista il bene pubblico. L’impegno nelle istituzioni non dovrebbe superare un certo lasso di tempo, trascorso il quale si ritorna al “lavoro vero” e si lascia il campo ad altri, agevolando il ricambio anche generazionale. Ciò consentirebbe anche di abbassare il rischio della corruzione. Sono in primis i partiti che dovrebbero darsi e poi applicare rigorosamente delle regole interne che non consentano alla stessa persona di candidarsi e di essere eletta per più di due mandati.

               Cooptazione: La politica sceglie i più fedeli o chi da comunque maggiore garanzia di fedeltà, trascurando il merito e anche la stessa rappresentatività democratica. Anche qui è un problema di regole, ma soprattutto di etica condivisa. I partiti, ad esempio, dovrebbero partire dal modo in cui organizzano i congressi, permettendo che si realizzi il vero gioco democratico ed evitando tesseramenti gonfiati pur di arrivare a risultati prestabiliti. La scelta di un cittadino un voto che si appresta a fare il nascente partito democratico mi sembra, se seguita nei fatti, un’ottima risposta all’attuale situazione di decadenza. Peccato che nello scegliere i membri del comitato promotore nazionale si sia ricaduti nelle vecchie logiche di cooptazione, come il caso dell’inserimento del governatore della Calabria, Agazio Loiero. Ma con tutti i gravi problemi che ha la regione, non sarebbe meglio che si occupasse esclusivamente e a tempo pieno a tentare di risolverli, ottemperando al mandato che gli elettori gli hanno conferito? Speriamo che per il partito democratico siano solo le doglie del parto.

1° Maggio 2007emblema repubblica

L’art. 1 della Costituzione Italiana recita: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Questa frase definisce l’Italia nei suoi elementi  fondativi: la democrazia ed il lavoro.

Nel 2008 ricorrerà il sessantesimo anniversario dall’entrata in vigore della nostra Carta Costituzionale che ancora, nei suoi principi fondamentali e nella parte prima, è tra le più avanzate del mondo. Ma, oggi 1° maggio vorrei fare alcune riflessioni sul grado della sua applicazione al mondo del lavoro.

Se il lavoro è elemento fondativo dello Stato (la ruota nell’emblema della Repubblica ne ribadisce il significato), allora vuol dire che tutti i cittadini hanno il diritto-dovere di lavorare tanto per contribuire alla crescita della comunità, quanto per assicurarsi una vita libera e dignitosa.

Si tratta di un principio che nella storia repubblicana ha trovato attuazione a due velocità diverse: una per il nord ed una per il sud.

Nel meridione il motore del lavoro ha girato sempre sotto il minimo e ancora oggi ci troviamo a “festeggiare” un primo maggio per il “lavoro che non c’è”. Per quel lavoro che diventa miraggio, che spesso significa emigrazione e diaspora, molte volte anche sfruttamento.

               A tutto ciò hanno “contribuito” di concerto una politica miope ed inadeguata, una criminalità pervasiva che impedisce il normale svolgersi delle relazioni socio-economiche, la mancanza di investimenti  seri. Ognuna di queste cause è al tempo stesso effetto dell’altra in un circolo vizioso che appare difficile spezzare.

               Ma un pensiero voglio dedicarlo a qualcosa di “politicamente scorretto”, ossia alla mancanza di cultura del lavoro. Nelle nostre regioni meridionali siamo stati infarciti di assistenzialismo (in molti casi parassitario) con il quale i politici dominanti hanno tenuto sotto scacco i cittadini promuovendo uno scambio perverso tra il voto e le promesse di un lavoro che lavoro in effetti non è. Si perché nel lavoro lo scambio corretto, come dicono i giuristi, è “sinagmallatico” ossia tra diritti e doveri, per cui al diritto ad un trattamento giuridico ed a una retribuzione equa, corrisponde il dovere di prestare con diligenza e produttività la propria opera. Se questo rapporto biunivoco non si realizza allora di tutto si può parlare fuorchè di lavoro.

               Piuttosto che promuovere il senso di responsabilità si è favorito quello dell’irresponsabilità, invece di scardinare l’atavico modo di vivere fatto di dipendenza dalle elargizioni del “sovrano” e fatalista si è iniettato il subdolo veleno della clientela, un veleno che ha prosciugato le sorgenti della società, lo spirito di iniziativa ed ha impedito il formarsi di una sana meritocrazia, quella meritocrazia che ci fa ritrovare i nostri migliori professionisti ed imprenditori come protagonisti nelle regioni settentrionali o all’estero, ma reietti nella nostra terra.

               Certo questo sistema è stato ed è fruttuoso per pochi, ma ha provocato e provoca danni incommensurabili per tutti.

               Allora il 1° maggio può essere l’occasione per fare l’ennesima riflessione sulle tante zavorre che impediscono di volare alla gente del sud, ma può diventare la premessa per uno start-up verso qualcosa di nuovo e di migliore che però può essere realizzato solo ribaltando la cultura dominante, a partire dalla scuola.    

               Si perché l’elemento culturale è spesso sottovalutato, ma è quello determinante poiché identifica il modo di essere di una società. Il cambiamento culturale ha bisogno di operare  in profondità, con un’attenzione decisiva verso le giovani generazioni, aiutandole a crescere prive di condizionamenti  e nella maturazione e condivisione di quei valori di libertà, dignità e giustizia che possono assicurare un futuro diverso da quello dei loro padri.  

Domenica  22 aprile 2007Foto partito democratico

               La nascita del partito democratico rappresenta la più importante novità della politica italiana degli ultimi tredici anni. Finalmente è colta un’esigenza profonda della società italiana e del sistema istituzionale, quello di una semplificazione del quadro politico. Semplificazione che non deve essere percepita in senso riduttivo come rinuncia alla propria storia e alle proprie identità, ma come quella sintesi alta di valori necessaria per rispondere meglio alle tante domande irrisolte della moderna (o post-moderna) società. La propria storia e la propria identità, quindi, sono rimesse in gioco per qualcosa di più importante, sono messe al servizio di un progetto politico che guarda con fiducia al futuro. Ma le stesse storie e le stesse identità si dovranno confrontare ed aprire ad altre storie ed altre identità: quelle di tutti i cittadini che pure desiderandolo hanno avuto difficoltà ad avvicinarsi alla politica perché gli spazi di partecipazione sono stati chiusi da gruppi di potere oligarchici. E’, infatti, questa la prima sfida del partito democratico: accorciare le distanze tra la politica ed i cittadini, aprire spazi di partecipazione nuovi e prolifici, restituire dignità alle idee. 

               La confluenza dei Democratici di Sinistra e della Margherita è il primo passo necessario. Necessario perché sono due grandi forze politiche e bisogna esser grati ai dirigenti che ci hanno creduto e che sono riusciti a resistere alle critiche di chi vuole sempre mantenere l’esistente per mantenere il suo piccolo o grande spazio di potere consolidato. Ma al primo passo ne devono seguire altri allo stesso modo importanti. E’ da oggi in poi che si deciderà il futuro del nuovo luogo politico che si chiama partito democratico. E si deciderà sulla partecipazione, sul coinvolgimento, sul dialogo, ma anche sul ristabilimento di una nuova etica della politica. La costituente che si andrà ad aprire dovrà fissare il principio di una testa un voto, le vecchie oligarchie dovranno cedere il passo ai portatori di quella freschezza tanto necessaria per rilanciare un paese che appare stanco e ripiegato su stesso, un paese che vive di cooptazione e che deve invece trasformarsi nel paese delle scelte.   

               Tra i discorsi che ho potuto ascoltare in questi giorni di congressi mi hanno colpito molto quelli di Rosy Bindi e di Angela Finocchiaro. Discorsi pieni di passione e di fiducia, parole che hanno allontanato la paura, pensieri che hanno tracciato la via. Se il partito democratico si saprà ispirare alle loro visioni riuscirà sicuramente a raggiungere la sua missione, quella di concorrere alla creazione di un paese più dinamico, ma allo stesso tempo più equo e solidale, pronto a cogliere ed a vincere le sfide del futuro, ma non dimentico della sua storia. Un paese più bello e da amare.

               Auguri.    

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CHIESA EVANGELICA VALDESE


 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

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