1° Maggio 2007
L’art. 1 della Costituzione Italiana recita: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Questa frase definisce l’Italia nei suoi elementi fondativi: la democrazia ed il lavoro.
Nel 2008 ricorrerà il sessantesimo anniversario dall’entrata in vigore della nostra Carta Costituzionale che ancora, nei suoi principi fondamentali e nella parte prima, è tra le più avanzate del mondo. Ma, oggi 1° maggio vorrei fare alcune riflessioni sul grado della sua applicazione al mondo del lavoro.
Se il lavoro è elemento fondativo dello Stato (la ruota nell’emblema della Repubblica ne ribadisce il significato), allora vuol dire che tutti i cittadini hanno il diritto-dovere di lavorare tanto per contribuire alla crescita della comunità, quanto per assicurarsi una vita libera e dignitosa.
Si tratta di un principio che nella storia repubblicana ha trovato attuazione a due velocità diverse: una per il nord ed una per il sud.
Nel meridione il motore del lavoro ha girato sempre sotto il minimo e ancora oggi ci troviamo a “festeggiare” un primo maggio per il “lavoro che non c’è”. Per quel lavoro che diventa miraggio, che spesso significa emigrazione e diaspora, molte volte anche sfruttamento.
A tutto ciò hanno “contribuito” di concerto una politica miope ed inadeguata, una criminalità pervasiva che impedisce il normale svolgersi delle relazioni socio-economiche, la mancanza di investimenti seri. Ognuna di queste cause è al tempo stesso effetto dell’altra in un circolo vizioso che appare difficile spezzare.
Ma un pensiero voglio dedicarlo a qualcosa di “politicamente scorretto”, ossia alla mancanza di cultura del lavoro. Nelle nostre regioni meridionali siamo stati infarciti di assistenzialismo (in molti casi parassitario) con il quale i politici dominanti hanno tenuto sotto scacco i cittadini promuovendo uno scambio perverso tra il voto e le promesse di un lavoro che lavoro in effetti non è. Si perché nel lavoro lo scambio corretto, come dicono i giuristi, è “sinagmallatico” ossia tra diritti e doveri, per cui al diritto ad un trattamento giuridico ed a una retribuzione equa, corrisponde il dovere di prestare con diligenza e produttività la propria opera. Se questo rapporto biunivoco non si realizza allora di tutto si può parlare fuorchè di lavoro.
Piuttosto che promuovere il senso di responsabilità si è favorito quello dell’irresponsabilità, invece di scardinare l’atavico modo di vivere fatto di dipendenza dalle elargizioni del “sovrano” e fatalista si è iniettato il subdolo veleno della clientela, un veleno che ha prosciugato le sorgenti della società, lo spirito di iniziativa ed ha impedito il formarsi di una sana meritocrazia, quella meritocrazia che ci fa ritrovare i nostri migliori professionisti ed imprenditori come protagonisti nelle regioni settentrionali o all’estero, ma reietti nella nostra terra.
Certo questo sistema è stato ed è fruttuoso per pochi, ma ha provocato e provoca danni incommensurabili per tutti.
Allora il 1° maggio può essere l’occasione per fare l’ennesima riflessione sulle tante zavorre che impediscono di volare alla gente del sud, ma può diventare la premessa per uno start-up verso qualcosa di nuovo e di migliore che però può essere realizzato solo ribaltando la cultura dominante, a partire dalla scuola.
Si perché l’elemento culturale è spesso sottovalutato, ma è quello determinante poiché identifica il modo di essere di una società. Il cambiamento culturale ha bisogno di operare in profondità, con un’attenzione decisiva verso le giovani generazioni, aiutandole a crescere prive di condizionamenti e nella maturazione e condivisione di quei valori di libertà, dignità e giustizia che possono assicurare un futuro diverso da quello dei loro padri.