Negli ultimi giorni si è acceso il dibattito sulla distanza tra cittadini e i politici. Tutti i sondaggi dicono che i cittadini non si fidano della politica perché la percepiscono come assolutamente lontana dai loro bisogni. E’ un disagio reale poiché, aldilà dei sondaggi, basta parlare con la gente per avvertire un senso, non mi sento di esagerare, quasi di nausea nei confronti della classe politica. Siamo vicini ai livelli dei primi anni ’90. Sappiamo bene come andò poi a finire.
Spesso la risposta difensiva è che sono posizioni qualunquistiche, o come è avvenuto qualche giorno fa a Palermo, in occasione delle cerimonie per il 15° anniversario della strage di Capaci, quando Giuliano Amato ha dato del “giustizialista ingiusto” e dell’emotivo ad un giovane studente che gli ricordava come nel Parlamento sedessero ben 25 condannati.
Può anche essere vero che ci sia in alcuni un pizzico di qualunquismo, ma la sfiducia sta attanagliando anche persone che amano la politica, quella vera, e che hanno posizioni ed idee forti.
Il punto è che se la politica non sa riformarsi dal suo interno, allora o arriverà un altro intervento forte della magistratura come tangentopoli, o vincerà l’antipolitica come il Berlusconismo.
Proverò qui a descrivere tre mali della politica, tentando però di suggerire qualche possibile rimedio.
Autoreferenzialità: I politici si parlano spesso addosso, secondo un linguaggio di casta mirato esclusivamente all’occupazione ed allo scambio delle caselline del potere. Ciò fa perdere il contatto con i cittadini e con i veri problemi che rimangono irrisolti e che anzi si incancreniscono. Quello che sta succedendo in Campania per l’emergenza rifiuti è drammaticamente emblematico. I cittadini andrebbero coinvolti ed ascoltati sempre e non solo quando appaiono utili perché devono esprimere un voto. Sia a livello nazionale che a livello locale vanno promosse e sviluppate forme di audit civico in modo da fare il punto sulla realizzazione dei programmi di governo e del grado di soddisfazione dei cittadini. In pratica le famose “verifiche” andrebbero realizzate per capire la bontà dell’azione di governo, non per trovare il posto al sole per qualcuno.
Carrierismo: La politica è diventata una forma di lavoro. A livello centrale e periferico ci sono centinaia di persone che hanno fatto della politica la loro professione e che vivono di essa. Ciò porta a difendere il potere con ogni mezzo, a chiudere gli spazi di partecipazione ed a perdere di vista il bene pubblico. L’impegno nelle istituzioni non dovrebbe superare un certo lasso di tempo, trascorso il quale si ritorna al “lavoro vero” e si lascia il campo ad altri, agevolando il ricambio anche generazionale. Ciò consentirebbe anche di abbassare il rischio della corruzione. Sono in primis i partiti che dovrebbero darsi e poi applicare rigorosamente delle regole interne che non consentano alla stessa persona di candidarsi e di essere eletta per più di due mandati.
Cooptazione: La politica sceglie i più fedeli o chi da comunque maggiore garanzia di fedeltà, trascurando il merito e anche la stessa rappresentatività democratica. Anche qui è un problema di regole, ma soprattutto di etica condivisa. I partiti, ad esempio, dovrebbero partire dal modo in cui organizzano i congressi, permettendo che si realizzi il vero gioco democratico ed evitando tesseramenti gonfiati pur di arrivare a risultati prestabiliti. La scelta di un cittadino un voto che si appresta a fare il nascente partito democratico mi sembra, se seguita nei fatti, un’ottima risposta all’attuale situazione di decadenza. Peccato che nello scegliere i membri del comitato promotore nazionale si sia ricaduti nelle vecchie logiche di cooptazione, come il caso dell’inserimento del governatore della Calabria, Agazio Loiero. Ma con tutti i gravi problemi che ha la regione, non sarebbe meglio che si occupasse esclusivamente e a tempo pieno a tentare di risolverli, ottemperando al mandato che gli elettori gli hanno conferito? Speriamo che per il partito democratico siano solo le doglie del parto.