Meravigliosa mattinata, al Parco Peppino Impastato di Lamezia, con Laura Boldrini e Gianni Speranza (a 400 ragazzi, figli di migranti, è stata conferita la cittadinanza onoraria), mattinata intrisa di inclusività, di speranza e di un futuro che è già oggi. Perchè nessun uomo è clandestino. Non i segni del potere, ma il potere dei segni (come esorta don Tonino Bello).

(Sabato, 13 luglio 2013)

di Giovanni Mazzillo

www.puntopace.net

U come ultimo, o meglio gli ultimi, ma anche come Unico, cioè l’Unico: Dio.

Ogni riflessione sulla pace passa attraverso la riconsiderazione degli ultimi (umanamente) come i primi (teologicamente). Scrivo mentre Papa Francesco si prepara ad incontrare, a Lampedusa, alcuni di quegli “ultimi”, che quando riescono a scampare alle insidie del mare, affrontato su gommoni o carcasse galleggianti, raramente riescono a sopravvivere alle procedure di respingimenti e di rigetto. E quando non si tratta di respingimenti militari, non è detto che manchino i “respingimenti” ... mentali. Anche da parte di alcuni “cristiani” (spero davvero che siano pochi) e persino da qualcuno che è stato battezzato da un Papa, in pompa magna e sotto il riflettori di mezzo mondo. Parlo di Magdi Allam, che, avendo già espresso, dopo l’elezi one di Papa Bergoglio, il suo volontario autoallontanamento dalla Chiesa cattolica, sembra non riesca oggi ad accettare nemmeno la scelta di Lampedusa come prima tappa di un itinerario di un altro Papa, che tra i suoi punti programmatici ricorrenti pone la preferenza per le periferie dell’esistenza e s’intende anche per quelle della società in cui viviamo. Rileggendo le dichiarazioni del fratello Magdi Cristiano del 25 marzo 2013, mi colpisce e mi affascina tuttavia una sua professione di fede e d’amore in Cristo, al punto che egli scrive: «Continuerò a credere nel Gesù che ho sempre amato e a identificarmi orgogliosamente con il cristianesimo come la civiltà che più di altre avvicina l'uomo al Dio che ha scelto di diventare uomo». Tuttavia la mia immediata contro domanda è in tutta umiltà e fraternità, in spirito autentico di pace: «Ma come si può amare Cristo senza non amare quelli che egli ama?». Non sembra una risposta valida quella espressa dallo stesso autore in data odierna (07/07/2013), che, pur professando il suo amore a Cristo, aggiunge che «prima dell’amore del prossimo viene l’amore di se stesso», convinzione che «i relativisti, i buonisti, i globalisti e gli immigrazionisti vorrebbero toglierci, obbligandoci a rispettare solo la prima parte “ama il prossimo tuo”». In realtà se c’è uno che ha amato gli altri più di se stesso, questi è proprio Cristo, altrimenti non sarebbe morto sulla croce. Ed inoltre, l’amore vero - da quello di una mamma a quello di un qualsiasi essere umano verso un altro essere umano, come Massimiliano Kolbe (che in un campo di concentramento offrì la sua vita al posto di un altro) - se è amore vero, non fa le sue ponderazioni sul bilancino del farmacista, su quale sia l’amore da privilegiare: quello di se stesso o quello del prossimo. Ama e si dona. Ama e offre la sua vita, non per amore della morte, e nemmeno per amore dell’amore, ma per amore dell’altro.

Senza questa “realtà” non potrei mai capire Cristo, né i suoi martiri, né quanti danno la

vita per lui e per gli altri, e – giacché ci siamo – nemmeno qualcosa come il celibato. Perché anche questo ha senso solo se è offerta di sé per un amore più grande, che almeno inizialmente va contro l’amore di sé e, pur nelle gratificazioni di un amore purificato e sublimato, resta sostanzialmente sempre lotta contro il puro e semplice amore di sé.

Sì, Cristo e i poveri, identificati negli ultimi, non sono cristianamente scindibili. E quanto a Dio, adorato e da adorare come Unico e solo, non è pensabile al di fuori di un binomio che qualcuno ha formulato in questi termini: Dio il primo: da adorare e da amare, ma in forza dell’amore verso di Lui non è separabile da questo l’amore verso i poveri, a partire dagli ultimi, perché proprio essi sono criterio e garanzia di un amore che, diversamente, rischia sempre di scadere nell’esalta zione mistificatoria, più che mistica. L’enciclica pubblicata ieri da Papa Francesco ce lo ricorda, unendo indissolubilmente, come sempre deve essere, l’amore alla fede. Se la fede è senza amore, non solo il misticismo autoreferenziale, ma anche il fondamentalismo è a portata di mano. Solo se è abitata dall’amore ed abita la regione del dono di sé, la fede non costituisce un pericolo per gli altri, per le “diversità”, per l’umanità:

«Essendo la verità di un amore, non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo. Risulta chiaro così che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede» (Lumen fidei , 34). È questo che bisogna tener presente, non per sminuire l’adorazione dell’Unico Dio, né per eclissare l’adesione incondizionata a Cristo, ma per capire che l’una e l’altra e, pertanto sia Dio sia Cristo, non sono comprensibili al di fuori dell’amore che va all’esterno da sé, perché è dell’amore darsi e persino preferire la vita degli altri a quella di se stessi. Per cui sottoscrivo la locuzione che afferma: il povero è il primo dopo l'Unico (T. Goffi, 1983). In questa logica, proprio il povero è il primo (da scegliere, da amare, da servire), dopo Dio, che è l'Unico (da adorare e da ascoltare come fonte di verità per la propria vita e per il senso della storia).

A parte qualche brano in cui viene anche considerata la pigrizia che talora attecchisce sulla povertà, nella Bibbia c’è non solo la denuncia dell’ingiustizia e della mancanza di solidarietà come causa prima della povertà, ma la predilezione di Dio per i poveri. Ciò ha come conseguenza il coinvolgimento nella stessa predilezione per chi “crede in” (cioè si affida) a Dio e al suo modo di valutare le cose. Troviamo qui un principio cardine dell'antropologia biblica: “Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora ” (Pr 14, 31).

Il seguito del Nuovo Testamento nasce in questo alveo e passa per due affermazioni centrali. La prima lega inesorabilmente la fede in Dio con l’amore del “prossimo”: «Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: "Io amo Dio" e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1Gv 4,19-21). L’altra indica, diremmo oggi indicizzandolo, il punto di partenza preferenziale di tale amore, declinandolo concretamente come cura dei più emarginati. Sono appunto i più piccoli, gli infimi, nelle prigioni di allora come in quelle di oggi, nei centri di accoglienza, come in ogni luogo dove l’ uomo vede vilipesa la su a dignità e soccombere la speranza, a Lampedusa come altrove. È Gesù stesso, colui che ha dato la vita per i fratelli, che in questa sua Regalità, da re, appunto dice «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40). Ogni teologia della pace non può prescindere da queste due affermazioni. Pace è amore concretamente.

Pace è amare cominciando dagli ultimi.

(Lunedì, 8 luglio 2013)

Ieri, presso il cortile dell'Istituto Salesiano di Soverato, si è svolto un incontro con don Luigi Ciotti. Nonostante non stesse bene, don Luigi ha lasciato a tutti noi parole di senso, parole potenti, parole non rubate, parole di cui abbiamo profondamente bisogno e che devono essere trasformate in impegno e, soprattuto, in responsabilità. Ci piace mettere in evidenza il racconto di ciò che è stato trovato sulla scrivania "disordinata" di don Pino Puglisi subito dopo il suo martirio. Su quella scrivania c'erano degli appunti con le quattro cose che avrebbe voluto chiedere per la comunità di Brancaccio al presidente della commissione parlamentare antimafia che doveva fargli visita da lì a pochi giorni: la scuola media, la palestra, il consultorio, la fognatura. E' così che si congiunge la terra al cielo. E' così che si invera il pensiero di Paolo VI, secondo il quale "la politica è la più alta forma di carità".

(Domenica, 9 giugno 2013)

La cronaca bianca della Repubblica
di Tonio Dell'Olio

Ma che bella festa della Repubblica abbiamo vissuto ieri! La Festa della Repubblica che ripudia la guerra non era ai Fori Imperiali ma in Piazza di Spagna con Rete Italiana per il Disarmo, Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile, Forum Nazionale per il Servizio Civile, Tavolo Interventi Civili di Pace e Campagna Sbilanciamoci. Molto semplicemente si è scelto di consegnare un attestato di "testimone di pace" a cittadini e cittadine che si sono messi al servizio della Costituzione nell'insegnamento, nella cooperazione allo sviluppo, nel servizio civile, nella sanità, nel mondo del lavoro, nella lotta alla criminalità organizzata, nell’informazione. Un premio è stato consegnato a un rappresentante degli stranieri senza cittadinanza. Uno speciale attestato è stato rilasciato alla memoria di Daniele Ghillani, giovane volontario in Servizio Civile all’estero morto in Brasile. Una Repubblica che non si rassegna a farsi rappresentare dalla retorica dei presentat'arm della parata militare e crede che il futuro è nelle mani della fiducia tra i popoli e nel riconoscimento dei diritti di tutte e tutti. E nel pomeriggio i giovani del servizio civile hanno incontrato la Presidente della Camera, Laura Boldrini. Non si era deciso affatto di tenere l'incontro a porte chiuse escludendo la stampa... ma così è avvenuto. Semplicemente perché i giornalisti hanno scelto così. Peccato, perché avrebbero saputo di giovani che accompagnano altri giovani. Rifugiati, disabili, nei quartieri difficili... Peccato perché avrebbero conosciuto Silvia, Arwan, Nino e Giulia. La cronaca bianca della Repubblica destinata a non fare notizia e che tiene a galla ogni giorno la Repubblica e i suoi valori.

(Lunedì, 3 giugno 2013)

Mercoledì pomeriggio ha concluso il suo pellegrinaggio terreno don Andrea Gallo, oggi sono state celebrate le sue esequie. Un "pretaccio" che, come don Pino Puglisi proclamato Beato a Palermo, ha percorso le "periferie esistenziali" come chiede Papa Francesco. Proponiamo due riflessioni, una di Moni Ovadia, l'altra di Vito Mancuso, su questo autentico testimone. Scomodo per molti potenti, anche all'interno della chiesa cattolica, semplicemente e paradossalmente perchè viveva il Vangelo con la radicalità esigente di Gesù.


Il profeta di strada, profeta dei nostri tempi

di Moni Ovadia *

Don Andrea Gallo, mio fratello, ci ha lasciato. Io che non credo ma che conoscevo la sua forte fibra e resistenza, pure fino all’ultimo ho sperato che il suo sorriso potesse fare il miracolo. Prete da marciapiede come si è sempre definito, è stato uno dei sacerdoti più noti e più amati del nostro sempre più disastrato Paese. Non solo per me, siamo in centinaia di migliaia di persone che da sempre lo abbiamo sentito come un fratello, una guida, un maestro, un compagno. Ma il «Gallo» è stato prima di tutto e soprattutto un essere umano autentico. Che in yiddish si dice «a mentsch».

La nostra nascita nel mondo come donne e uomini, è un evento deciso da altri anche se la costruzione in noi del capolavoro che è un essere umano autentico, dipende in gran parte dalle nostre scelte. Il tratto saliente di questo percorso, è l’apertura all’altro laddove si manifesta nella sua più intima e lancinante verità ovvero nella sua dimensione di ultimo, sia egli l’oppresso, il relitto, il povero, l’emarginato, il disprezzato, l’escluso, il segregato, il diverso.

L’apertura all’altro, sia chiaro, non si manifesta nel melenso atto caritativo che sazia la falsa coscienza e lascia l’ingiustizia integra e perversamente operante, ma si esprime nella lotta contro le ingiustizie, nell’impegno diuturno per la costruzione di una società di uguaglianza, di giustizia sociale in una vibrante interazione di pensiero e prassi con una prospettiva tanto laicamente rivoluzionaria, quanto spiritualmente evangelica.

Il «Gallo» è stato radicalmente cristiano, sapendo che il messaggio di Gesù è un messaggio rivoluzionario, radicale e non moderato ed è per questo che l’hanno messo in croce, per la destabilizzante radicalità del cammino che indicava. «Beati gli ultimi perché saranno i primi» non è un invito a bearsi in una permanente condizione di minorità per il compiacimento delle classi dominanti, ma è un’incitazione a mettersi in cammino per liberare l’umanità dalla violenza del potere, per redimerla con l’uguaglianza.

La parola ebraica ashrei, tradotta correntemente con beato, si traduce meno proditoriamente con in marcia come propone il grandissimo traduttore delle scritture André Chouraqui.

È questa consapevolezza che ha fatto di don Gallo un profeta e non nell’accezione volgare e stereotipata con cui spesso si vuole sminuire o sbeffeggiare il ruolo di questa figura, ma nel senso più profondo di uomo che ha incarnato la verità dei grandi pensieri ripetutamente e capziosamente pervertiti dai funzionari del potere, siano essi i soloni del regno terreno, siano essi i chierici del cosiddetto regno celeste.

Questa è la ragione per la quale il profeta trasmette la parola del divino e il divino del monoteismo ha eletto come suo popolo lo schiavo e lo straniero, l’esule, lo sbandato, il fuoriuscito, il diverso, il meticcio avventizio perché tali erano gli ebrei e non un popolo etnicamente omogeneo come oggi vorrebbe uno sconcio delirio nazionalista.

Nella sua fondamentale opera «Se non ora adesso» (pubblicata da Chiarelettere) che deve essere letta da chiunque voglia capire le parole illuminate di questo prete da marciapiede, Gallo ci ha ricordato che l’etica è più importante della fede, come il filosofo e grande pensatore dell’ebraismo Emmanuel Lévinas suggerisce nel suo saggio «Amare la Torah più di Dio».

Come già il profeta d’Israele Isaia dichiara con parole infiammate, il Santo Benedetto stesso chiede agli uomini di praticare etica e giustizia perché disprezza la fede vuota e ipocrita dei baciapile:
- «Che mi importa dei vostri sacrifici senza numero. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi. Il sangue di tori, di capri e di agnelli Io non lo gradisco...
- Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio, noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità.
- I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso, sono stanco di sopportarli.
- Quando stendete le mani, Io allontano gli occhi da voi. -Anche se moltiplicate le preghiere, Io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista.
- Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova».

Il profeta autentico non predice il futuro, non è una vox clamans nel deserto, è l’appassionata coscienza critica di una gente, di una comunità, di un’intera società, ed è questa coscienza che si incide nella prole perché le parole diventino fatti, azioni militanti ad ogni livello della relazione interumana e per riconfluire in parole ancora più gravide di quella coscienza trasformatrice.

Questo è a mio parere il senso che don Gallo attribuisce al Primato della Coscienza espresso mirabilmente nel documento conciliare «Nostra Aetate» uscito dal Concilio Vaticano Secondo voluto da Giovanni XXIII, il «papa buono», ma buono perché giusto.

Con il poderoso strumento della sua coscienza cristiana, antifascista, critica, militante, laica ed evangelicamente rivoluzionaria, il prete cattolico Gallo, è riuscito a confrontarsi con i temi socialmente più urgenti ed eticamente più scabrosi smascherando i moralismi, le rigidità dottrinarie, le ipocrisie che maldestramente travestono le intolleranze per indicare il cammino forte della fragilità umana come via per la liberazione.

Quest’ultima e intima verità dell’uomo, Andrea Gallo la sapeva, la sentiva e la riconosceva nelle parole più impegnative delle scritture perché istituiscono l’umanesimo monoteista ma anche l’umanesimo tout court nella sua dirompente radicalità: «Ama il prossimo tuo come te stesso, ama lo straniero come te stesso, ciò che fai allo straniero lo fai a Me».

La passione per l’uomo, per la vita e per l’accoglienza dell’altro, si sono così coniugate in questo specialissimo uomo di fede con un folgorante humor che dissìpa ogni esemplarità predicatoria per aprire la porta del dialogo fra pari a chiunque voglia entrare, cristiano o mussulmano, ebreo o buddista, credente o ateo.

In don Gallo si è compiuto il miracolo dell’ubiquità: lui è stato radicalmente cristiano e anche irriducibilmente cattolico, ma potrebbe anche essere ricordato come uno tzaddik chassidico, così come è stato un militante antifascista ed un laicissimo libero pensatore.

Per me il Gallo resta un fratello, un amico, una guida certa, un imprescindibile e costante riferimento.

Per me personalmente, la speranza tiene fra le labbra un immancabile sigaro e ha il volto scanzonato di questo prete ribelle.

* Il Manifesto, 23 maggio 2013

 

Addio a don Gallo il prete dei dimenticati

di Vito Mancuso*

Don Andrea Gallo vivrà nell’immaginario degli italiani con il suo sigaro, il cappello nero e l’immancabile colletto da prete, i segni più caratteristici della doppia appartenenza che ha contraddistinto la sua lunga e felice vita: l’appartenenza al mondo e alla chiesa, alla terra e al cielo. Termini tutti ugualmente importanti per uno che vi ha dedicato la vita.

Ma il primo posto per don Gallo spettava al mondo e alla terra, perché era solo in funzione di essi che per lui aveva senso poi parlare di chiesa e di cielo. La stola sacerdotale, che egli amava e a cui è sempre stato fedele, veniva dopo la sciarpa arcobaleno con i colori della pace che spesso indossava, e veniva dopo la sciarpa rossa spesso parimenti indossata per l’ideale di giustizia e di uguaglianza che a lui richiamava.

È stato questo primato del mondo e della terra che ha condotto don Gallo a essere un prete ribelle, contestatore, mai allineato con i dettami della gerarchia, soprattutto in campo etico e sociale. Un ribelle per amore, per amore del mondo e della sua gente, mai invece contro la sua Chiesa solo per il fatto di essere contro.

Se don Gallo è giunto spesso a essere contro, lo ha fatto solo perché era la condizione per essere per, per essere al fianco dei più emarginati, dei più umili, dei più bisognosi, e per non tradire mai la sua coscienza con il dover ripetere precetti o divieti di cui non vedeva il senso o che riteneva ingiusti.

Una volta gli chiesero che cosa pensasse della Trinità, come riuscisse a conciliare il rebus di questo Dio unico in tre persone, con tutte le processioni, le missioni e gli altri complessi concetti speculativi che il dogma trinitario porta con sé. Egli rispose che non si curava di queste sottigliezze dogmatiche perché gli importava solo una cosa: che Dio fosse antifascista!

Al di là della brillante battuta che gli servì per uscire indenne dalle insidie della teologia trinitaria, l’espressione “Dio antifascista” racchiude al meglio il messaggio spirituale che la vita di don Gallo ha rappresentato e continuerà a rappresentare per tutti coloro che l’hanno amato, l’hanno applaudito e hanno letto i suoi libri: intendo riferirmi alla cultura della pace, della solidarietà e della giustizia; alla lotta contro l’arroganza del potere e del denaro; al rifiuto di ogni forma di violenza, anche solo verbale, per ricorrere invece all’arma sempre più efficace dell’ironia e dell’umorismo.

Quello che mi colpiva e mi piaceva di don Gallo era che in lui, a differenza di altri cristiani contestatori e di una certa musoneria risentita abbastanza diffusa nella sua parte politica, mancavano del tutto il risentimento e l’astio, per lasciare spazio invece a un’allegria di fondo, una bonarietà, uno sguardo pulito, un accordo armonioso con il ritmo della vita, come si percepiva anche dalla musicalità grave della sua bellissima voce.

L’ultima volta che l’ho visto è stato due mesi fa, all’indomani dell’elezione del nuovo Papa, quando Fabio Fazio ci chiamò nel suo programma per commentarla.

Don Gallo fu brillantissimo, ogni sua parola suscitava un lungo applauso del pubblico, era felice come un bambino per la speranza che il Papa venuto dalla fine del mondo stava riaprendo ai credenti come lui, quelli che sono nella chiesa non a dispetto del mondo, ma per servirne al meglio la vita, cioè cercando di dare agli uomini ciò che il mondo costitutivamente non può dare loro, vale a dire la speranza che i sacri ideali dell’umanità (il bene, la giustizia, l’amore) non sono illusioni destinate a cadere “all’apparir del vero”, ma la dimensione più vera dell’essere da cui ognuno di noi proviene e nella quale ritornerà.

Era proprio per questa speranza che don Gallo credeva in Dio e nel messaggio di Gesù. Egli vedeva in questa fede uno dei più nobili gesti d’amore verso la vita e verso gli uomini che l’attraversano spesso soffrendo.

La fede di don Gallo era un profetico atto di fedeltà al mondo e di amore per gli uomini. In un cattolicesimo quale quello del nostro Paese, spesso privo di schiettezza e di libertà di parola, calcolatore, politico, amico del potere, caratterizzato da un conformismo che fa allineare pubblicamente tutti alla voce del padrone, compresi coloro che privatamente fanno i profeti e gli innovatori, in questo cattolicesimo cortigiano e privo di coraggio, la figura di don Gallo con il suo sigaro e il suo cappello ha svettato e svetterà per onestà intellettuale e libertà di spirito, perché egli non temeva di ripetere dovunque (in tv o davanti al suo vescovo non aveva importanza) i concetti sostenuti tra nuvole di fumo nelle lunghe nottate genovesi con gli amici della sua comunità.

*La Repubblica, 23 maggio 2013

(Sabato 25 maggio 2013)

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