Deuteronomio 4,5-20
(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 10 settembre 2023)
Care sorelle e cari fratelli,
Il libro del Deuteronomio (seconda legge, secondo la sua versione greca) è il libro che conclude la Torah (insegnamento), ossia i cinque libri della Bibbia che costituiscono le fondamenta della Bibbia ebraica.
In ebraico il Deuteronomio è chiamato “Debarìm” “parole” dal primo versetto del libro “1 Queste sono le parole che Mosè rivolse a Israele di là dal Giordano, nel deserto, nella pianura di fronte a Suf, tra Paran, Tofel, Laban, Aserot e Di-Zaab. 2 Vi sono undici giornate dall'Oreb, per la via del monte Seir, fino a Cades-Barnea”.
Sono tre lunghi discorsi che Mosè rivolge agli Israeliti nei giorni precedenti la sua morte sul monte Nebo ai confini della Terra d’Israele.
Il testo che abbiamo appena letto è collocato nella prima parte del libro, all’interno del primo discorso di Mosè.
In questi sedici versetti sono riassunti i tratti salienti dell’alleanza che il Signore e il popolo sigillarono ai piedi del monte Oreb, quando Mosè discese per la seconda volta con le Tavole delle 10 parole, dopo la vicenda del vitello d’oro.
E’ un Patto esigente, fonte di vita e di benedizioni, che richiede anzitutto fedeltà al Signore e la ferma volontà di seguire le Sue vie.
Ma se nella fedeltà c’è una risposta di vita, l’infedeltà può generare morte.
Se ci proiettiamo per un momento al capitolo 28 dello stesso libro troviamo, infatti, un condensato di benedizioni e di maledizioni. Mosè ricorda al popolo che ha sottoscritto un Patto con il Signore e che rispettandolo si ricevono miriadi di benedizioni, ma violandolo ci si allontana da Dio, si crea un distacco difficile da colmare, anche se il Signore può agire sempre con la Sua misericordia per riempire di nuovo il vuoto creato dall’uomo.
Da questo Patto nasce tutta la teologia ebraica secondo la quale l’esilio babilonese è il prezzo che il popolo ha pagato per la sua disubbidienza al Signore, per avere violato il Patto che era stato posto a fondamento della nascita del popolo stesso.
Ancora adesso nello shabbat che precede la Tish’a beAv (alla fine del mese di luglio), in memoria della distruzione del primo e secondo Tempio, gli ebrei digiunano e leggono la Parasha (ossia una selezione di passi biblici) di Devarim/Deuteronomio proprio per meditare sulla bellezza di mantenersi fedeli al Signore.
Dio si è scelto il Suo popolo tra tante nazioni, ma non lo ha scelto tra nazioni potenti, tra grandi re e grandi eserciti. No, l’elezione di Israele è nata proprio dal suo essere piccolo, un piccolo popolo destinato a vivere in mezzo a giganti potenti e prepotenti.
La grande nazione a cui si riferiscono i versetti 6 e 7, non va intesa nel senso dell’estensione territoriale o della potenza dello Stato, ma della fedeltà al Signore, della testimonianza che Israele è chiamata a rendere agli altri popoli.
Il privilegio d’Israele è proprio il non essere potente, il ricavare la sua forza esclusivamente dalla bontà di Dio e sulla fedeltà da e verso il Signore.
Solo in epoca più tarda il popolo chiese un re, “come lo hanno tutte le altre nazioni”, e Dio, tramite Samuele, glielo diede avvertendolo però delle conseguenze che stare sotto un re comporta.
7 Allora il SIGNORE disse a Samuele: «Da' ascolto alla voce del popolo in tutto quello che ti dirà, poiché essi non hanno respinto te, ma me, affinché io non regni su di loro. 8 Agiscono con te come hanno sempre agito dal giorno che li feci salire dall'Egitto fino a oggi: mi hanno abbandonato per servire altri dèi. 9 Ora dunque da' ascolto alla loro voce; abbi cura però di avvertirli solennemente e di fare loro ben conoscere quale sarà il modo di agire del re che regnerà su di loro».
10 Samuele riferì tutte le parole del SIGNORE al popolo che gli domandava un re. 11 Disse: «Questo sarà il modo di agire del re che regnerà su di voi. Egli prenderà i vostri figli e li metterà sui carri e fra i suoi cavalieri e dovranno correre davanti al suo carro; 12 ne farà dei capitani di migliaia e dei capitani di cinquantine; li metterà ad arare le sue terre e a mietere i suoi campi, a fabbricare i suoi ordigni di guerra e gli attrezzi dei suoi carri” (1 Samuele 8,7-12).
Quanta realtà lega la Parola del Signore anche ai nostri giorni.
L’elezione di Israele quale popolo di Dio però reca con sé una grande responsabilità. La responsabilità della testimonianza, di essere un popolo santo tra tutte le altre nazioni.
Coloro che sono chiamati da Dio hanno il dovere, oltre alla fedeltà, di essere suoi testimoni, di narrare e rinarrare le Sue meraviglie.
E’ un privilegio che non può e non deve essere eluso.
Abbiamo infatti letto dal versetto 9 del nostro testo “Soltanto, bada bene a te stesso e guàrdati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste, ed esse non ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli.”
Ora noi, anche oggi in questa chiesa, ci possiamo e dobbiamo chiedere: “ma questo testo ci riguarda”? E se, si, come possiamo farlo nostro in una società in cui la “comunicazione religiosa” è diventata quasi una cosa per specialisti, mentre la maggior parte delle persone, se provi a parlare di Dio, ti guarda se non con diffidenza, almeno con grande scetticismo?
Alla prima domanda possiamo rispondere “certo, che ci riguarda”. Noi proveniamo da quella comune matrice, come dice Paolo nel capitolo 11 della lettera ai Romani, siamo stati tagliati dall’olivo selvatico e innestati, contro natura, nell’olivo domestico (che è Israele).