(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 10 settembre 2023)

Deuteronomio 4,5-20

Care sorelle e cari fratelli,

Il libro del Deuteronomio (seconda legge, secondo la sua versione greca) è il libro che conclude la Torah (insegnamento), ossia i cinque libri della Bibbia che costituiscono le fondamenta della Bibbia ebraica.

In ebraico il Deuteronomio è chiamato “Debarìm” “parole” dal primo versetto del libro 1 Queste sono le parole che Mosè rivolse a Israele di là dal Giordano, nel deserto, nella pianura di fronte a Suf, tra Paran, Tofel, Laban, Aserot e Di-Zaab. 2 Vi sono undici giornate dall'Oreb, per la via del monte Seir, fino a Cades-Barnea”.

Sono tre lunghi discorsi che Mosè rivolge agli Israeliti nei giorni precedenti la sua morte sul monte Nebo ai confini della Terra d’Israele.

Il testo che abbiamo appena letto è collocato nella prima parte del libro, all’interno del primo discorso di Mosè.

In questi sedici versetti sono riassunti i tratti salienti dell’alleanza che il Signore e il popolo sigillarono ai piedi del monte Oreb, quando Mosè discese per la seconda volta con le Tavole delle 10 parole, dopo la vicenda del vitello d’oro.

E’ un Patto esigente, fonte di vita e di benedizioni, che richiede anzitutto fedeltà al Signore e la ferma volontà di seguire le Sue vie.

Ma se nella fedeltà c’è una risposta di vita, l’infedeltà può generare morte.

Se ci proiettiamo per un momento al capitolo 28 dello stesso libro troviamo, infatti, un condensato di benedizioni e di maledizioni. Mosè ricorda al popolo che ha sottoscritto un Patto con il Signore e che rispettandolo si ricevono miriadi di benedizioni, ma violandolo ci si allontana da Dio, si crea un distacco difficile da colmare, anche se il Signore può agire sempre con la Sua misericordia per riempire di nuovo il vuoto creato dall’uomo.

Da questo Patto nasce tutta la teologia ebraica secondo la quale l’esilio babilonese è il prezzo che il popolo ha pagato per la sua disubbidienza al Signore, per avere violato il Patto che era stato posto a fondamento della nascita del popolo stesso.

Ancora adesso nello shabbat che precede la Tish’a beAv (alla fine del mese di luglio), in memoria della distruzione del primo e secondo Tempio, gli ebrei digiunano e leggono la Parasha (ossia una selezione di passi biblici) di Devarim/Deuteronomio proprio per meditare sulla bellezza di mantenersi fedeli al Signore.

Dio si è scelto il Suo popolo tra tante nazioni, ma non lo ha scelto tra nazioni potenti, tra grandi re e grandi eserciti. No, l’elezione di Israele è nata proprio dal suo essere piccolo, un piccolo popolo destinato a vivere in mezzo a giganti potenti e prepotenti. 

La grande nazione a cui si riferiscono i versetti 6 e 7, non va intesa nel senso dell’estensione territoriale o della potenza dello Stato, ma della fedeltà al Signore, della testimonianza che Israele è chiamata a rendere agli altri popoli.

Il privilegio d’Israele è proprio il non essere potente, il ricavare la sua forza esclusivamente dalla bontà di Dio e sulla fedeltà da e verso il Signore. 

Solo in epoca più tarda il popolo chiese un re, “come lo hanno tutte le altre nazioni”, e Dio, tramite Samuele, glielo diede avvertendolo però delle conseguenze che stare sotto un re comporta.

7 Allora il SIGNORE disse a Samuele: «Da' ascolto alla voce del popolo in tutto quello che ti dirà, poiché essi non hanno respinto te, ma me, affinché io non regni su di loro. 8 Agiscono con te come hanno sempre agito dal giorno che li feci salire dall'Egitto fino a oggi: mi hanno abbandonato per servire altri dèi. 9 Ora dunque da' ascolto alla loro voce; abbi cura però di avvertirli solennemente e di fare loro ben conoscere quale sarà il modo di agire del re che regnerà su di loro».
10 Samuele riferì tutte le parole del SIGNORE al popolo che gli domandava un re. 11 Disse: «Questo sarà il modo di agire del re che regnerà su di voi. Egli prenderà i vostri figli e li metterà sui carri e fra i suoi cavalieri e dovranno correre davanti al suo carro; 12 ne farà dei capitani di migliaia e dei capitani di cinquantine; li metterà ad arare le sue terre e a mietere i suoi campi, a fabbricare i suoi ordigni di guerra e gli attrezzi dei suoi carri” (1 Samuele 8,7-12).

Quanta realtà lega la Parola del Signore anche ai nostri giorni.

L’elezione di Israele quale popolo di Dio però reca con sé una grande responsabilità. La responsabilità della testimonianza, di essere un popolo santo tra tutte le altre nazioni. 

Coloro che sono chiamati da Dio hanno il dovere, oltre alla fedeltà, di essere suoi testimoni, di narrare e rinarrare le Sue meraviglie.

E’ un privilegio che non può e non deve essere eluso.

Abbiamo infatti letto dal versetto 9 del nostro testo “Soltanto, bada bene a te stesso e guàrdati dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste, ed esse non ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli.”

Ora noi, anche oggi in questa chiesa, ci possiamo e dobbiamo chiedere: “ma questo testo ci riguarda”? E se, si, come possiamo farlo nostro in una società in cui la “comunicazione religiosa” è diventata quasi una cosa per specialisti, mentre la maggior parte delle persone, se provi a parlare di Dio, ti guarda se non con diffidenza, almeno con grande scetticismo?

Alla prima domanda possiamo rispondere “certo, che ci riguarda”. Noi proveniamo da quella comune matrice, come dice Paolo nel capitolo 11 della lettera ai Romani, siamo stati tagliati dall’olivo selvatico e innestati, contro natura, nell’olivo domestico (che è Israele). 

(Chiesa Valdese di Catanzaro, domenica 16 luglio 2023) 

Il lezionario “Un giorno, una Parola”, ci propone per la predicazione di questa 7^ domenica dopo Pentecoste un brano tratto dal libro di Isaia, Isaia 43,1-7

Care sorelle e cari fratelli,

Questa domenica ci troviamo di fronte ad un testo che potrebbe sembrare, ad un primo avviso, davvero distante dalla nostra mentalità contemporanea e dal contesto in cui viviamo.

E’ un annuncio di salvezza con il quale il Signore, per mezzo del Suo profeta Isaia, rassicura il popolo d’Israele sulla propria fedeltà, sul fatto che ricondurrà la sua discendenza da ovest a est, da sud a nord.

Dio ama il Suo popolo e non lo abbandonerà, lo farà passare  indenne attraverso l’acqua e il fuoco, non potrà succedergli davvero nulla. 

Dio è il Signore della storia e promette al suo popolo un nuovo grandioso passaggio attraverso il Mar delle Canne. Un nuovo approdo dall’Egitto verso la terra dove scorre latte e miele.

La promessa è fondata sul fatto che Dio ha formato il Suo popolo, non può lasciarlo andare al suo destino, ma interverrà e manterrà le Sue promesse anche se il popolo tante volte lo ha abbandonato.

Risalta subito la cura che il Signore ha per il Suo popolo. Con parole poetiche il profeta da ragione dell’amore incommensurabile di Dio.

Ma chi è oggi questo popolo, e questa promessa fatta più di due millenni fa’ è tuttora valida?

Diciamo subito che Isaia è un profeta universalista che fa, potremmo dire oggi, del pluralismo il suo marchio di fabbrica. Il suo universalismo sfocerà poi in quello dell’evangelo.

Lo testimonia anche questo passaggio:

“Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti, e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie, e possiamo camminare nei suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti, e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”  (Isaia 2,2-4).

Secondo questi versetti al tempio del Signore affluiranno tutte le genti, verranno molti popoli.

Potremmo quindi dire che il popolo cui si rivolge il Signore, per mezzo del profeta Isaia, nei versetti di questa domenica, siamo noi.

E’ un Noi che però non è esclusivo, non riguarda solo noi che siamo qui riuniti in questa chiesa, noi che ci diciamo cristiani o noi che viviamo in occidente.

Per rimanere fedeli al linguaggio del profeta, è un Noi totalmente inclusivo che riguarda proprio tutti e tutte, a tutte le latitudini e longitudini, qualsiasi sia la lingua parlata, la fede professata, il colore della pelle, maschi e femmine. E’ un Noi che è un tutti.   

E’ questo Noi che il Signore ricondurrà a se dall’occidente e dall’oriente, dal mezzogiorno e dal settentrione.

Questo Noi, secondo la Scrittura, può contare sulla bontà del Signore, sulla sua misericordia, ma anche sul suo giudizio.

Ma è proprio così? Possiamo avere fiducia? 

Se fermassimo il nostro sguardo solo sulla miseria, l’indifferenza, la violenza, la distruzione, la morte di cui, come umanità, ci siamo macchiati e ci macchiamo, queste parole di Isaia non farebbero altro che abbandonarci alla tristezza ed alla disperazione. 

Ma come, ma quando? I popoli, e in particolare i poveri, urlano il loro grido di dolore. Dio dov’è? 

Si esaltano i violenti, e si umiliano i mansueti. Tutte le nostre piazze hanno monumenti a “grandi” generali e guerrieri, tutto sembra premiare chi prevarica i deboli.

Non c’è né misericordia, né giudizio. Il Signore appare come un’entità lontana che tutt’al più ci ha creato, ma ora ci ha lasciato al nostro destino. Sembra che ci dica: “si salvi chi può, non chiedete a me”.  

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 18 giugno 2023)

Il lezionario “Un giorno, una Parola”, ci propone per la predicazione di questa 3^ domenica dopo Pentecoste un brano tratto dall’evangelo di Luca, Luca 14,15-24.

Care sorelle e cari fratelli,

La versione della Bibbia Nuova Riveduta 2006 da un titolo preciso al passo del Vangelo di Luca che abbiamo letto: “Parabola del gran convito”.

In effetti, ci troviamo di fronte ad una celebre parabola di Gesù.

Yann Redaliè, biblista e pastore protestante svizzero, tra l’altro è docente emerito di Nuovo testamento presso la Facoltà Valdese di Roma, ha definito le parabole di Gesù paragonandole a delle fictions.

Molti di noi sono appassionati di fictions.

Se ci pensiamo bene, Gesù è stato davvero un grande narratore di fictions.

Così, in un linguaggio moderno, potremmo definire le parabole.

Sono storie che in ogni tempo trovano le forme adeguate per essere raccontate.

Raccontava delle storie, prese con riferimento alla vita concreta e che avevano una trama completa e compiuta, e li affidava alla libera interpretazione del suo uditorio.

Però, erano storie che trasformavano, che non lasciavano mai le persone nello stato in cui erano prima del racconto, che comunque ponevano degli interrogativi.

Avevano un effetto di spiazzamento, tant'è che anche i suoi discepoli talvolta rimanevano interdetti e sentivano il desiderio di chiedere a Gesù stesso la spiegazione del messaggio che la parabola conteneva.

Proprio come accade anche a noi oggi, quando ci mettiamo ai piedi del Maestro con il medesimo desiderio di ascoltare e comprendere la Sua Parola.

Anche la parabola del gran convito non si sottrae a questo schema.

Gesù narra una storia, abbiamo un gruppo di persone che ascolta, c’è una conclusione che però lascia aperta la porta alle domande, che non lascia tranquilli e tranquille coloro che ne hanno seguito lo svolgimento.

Per introdurci a questa storia dobbiamo fare un passo indietro all’inizio del capitolo 14. Purtroppo, non abbiamo tutto il tempo necessario ad approfondire ma non mancheranno di certo altre occasioni. Gesù era in casa di un importane esponente dei farisei, per prendere cibo (era stato invitato a pranzo). Era di sabato. Dapprima Gesù ha davanti un idropico e chiede ai suoi interlocutori se fosse lecito fare guarigioni nel giorno di sabato. Non avendo ottenuto risposta prese per mano l’uomo e lo guarì. Gesù prende per mano, tocca le persone, non osserva e comanda a distanza, guarisce perché ha compassione per ogni sofferenza. Poi la domanda chiave: “chi di voi, se gli cade nel pozzo un figlio o un bue, non lo tira fuori in giorno di sabato?” (Luca 14, 5). Anche a questa domanda, nessuno rispose perché “non potevano rispondere nulla in contrario” (Luca 14,6).

Quindi Gesù è ospitato nella casa di un fariseo influente, la guarigione in giorno di sabato di una persona gli poteva provocare qualche guaio, ma non per questo si tira indietro, consapevole del rischio, nella Sua libertà e autorevolezza, non rinuncia ad affermare e a dimostrare che il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato, che l’amore per il prossimo annulla ogni distanza anche di carattere religioso.

Restiamo sempre nella casa di questa “importante” persona farisea. Gesù nota come si muovono gli invitati, sempre alla caccia dei primi posti, della visibilità ad ogni costo, del voler essere sempre al centro dell’attenzione, e attraverso delle parole che potrebbero sembrare dei consigli di semplice galateo, li raccomanda, quando saranno invitati, a mettersi all’ultimo posto “Poiché chiunque si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato(Luca 14,11). No, non è banale galateo ma un insegnamento che invita a mantenersi, a mantenerci sempre umili, a conservare costantemente un atteggiamento di grande discrezione, a non esaltarci, perché è il Signore che, quando lo riterrà, ci chiamerà, ci inviterà ad andare avanti e allora la nostra gioia sarà davvero grande. 

Gesù, però, non solo invita all’umiltà personale, a stare in fondo, a scegliere gli ultimi posti, a non innalzarsi per non essere abbassati, a comprenderci limitati nella nostra debole e fallace realtà umana, ma, sempre prendendo spunto da un banchetto, che è sempre stato una componente importante delle relazioni umane, anche a comportaci abbandonando l'ottica dello scambio continuo, della permanente ricerca del nostro interesse, di ricevere sempre qualcosa in più per ogni nostro “dono”, del guadagno per ogni cosa che facciamo, ma a deporre questi atteggiamenti, a comprendere che se doniamo, se facciamo qualcosa a favore di un nostro simile, di una nostra simile, della comunità, siamo chiamati a farlo senza speranza di ottenerne il contraccambio. Solo con questo spirito di libertà e di disinteresse potremo ottenere il guadagno massimo, quello che ha più valore in assoluto, la ricompensa che non ha davvero uguali e che ci può far già assaporare la bellezza del Regno: «12 Diceva pure a colui che lo aveva invitato: «Quando fai un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i vicini ricchi; perché essi potrebbero a loro volta invitare te, e così ti sarebbe reso il contraccambio; 13 ma quando fai un convito, chiama poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14 e sarai beato, perché non hanno modo di contraccambiare; infatti il contraccambio ti sarà reso alla risurrezione dei giusti» (Luca 14,12-14).

La parola di Gesù si svolge dunque in questa cornice di convivialità. Il Signore accettava volentieri gli inviti ai banchetti perché erano l’occasione per ascoltare i suoi interlocutori e predicare l’avvento del Regno.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 21 maggio 2023)

Il lezionario “Un giorno, una Parola”, ci propone per la predicazione di questa 6^ domenica dopo Pasqua - Exaudi (O Signore ascolta la mia voce - Salmo 27,7) un brano tratto dal 1° Libro di Samuele, precisamente I Samuele 3,1-10.

Care sorelle e cari fratelli, 

Il testo che abbiamo appena letto è un tipico racconto di vocazione, ci descrive la chiamata e, quindi, l’inizio della missione di Samuele, profeta e giudice d’Israele. 

Il suo ruolo assume un’importanza assoluta per la storia d’Israele, infatti è lui che unge il primo re nella persona di Saul e poi il suo successore il re David al quale si richiameranno tante speranze messianiche e che è considerato il modello di re per eccellenza, anche se si macchierà di molto sangue e per questo il Signore non gli consentirà di costruirgli il Tempio di Gerusalemme.

Il re David fu modello di fede ma anche di imperfezione. Ci torneremo.

Ma chi era Samuele? Per scoprirlo dobbiamo scorrere il primo capitolo di I Samuele. 

Prima però annotiamoci due cose importanti del versetto 1 del nostro testo, che riprenderemo pure dopo: 

“La parola del SIGNORE era rara a quei tempi, e le visioni non erano frequenti”. 

Samuele era figlio di Elcana e Anna. All’inizio di I Samuele ci viene detto che Elcana aveva due mogli, Peninna e Anna. Nonostante la sua sterilità, Elcana amava Anna.

Ci viene subito in mente la storia di Giacobbe e delle sue due mogli, Rachele e Lia. Giacobbe amava Rachele, sebbene quest’ultima fosse pure sterile. 

Come Rachele, Anna troverà il suo riscatto. Sappiamo bene, infatti, che la sterilità era considerata come uno stigma, una maledizione di Dio. Secondo la cultura patriarcale di allora, se una coppia non era in grado di generare figli la “colpa” era sempre della donna, destinata quindi all’emarginazione e talvolta al disprezzo da parte delle rivali. Oggi sappiamo benissimo che l’infertilità può dipendere tanto dal maschio, quanto dalla femmina e, almeno da questo punto di vista, ci troviamo su un piano di pari dignità e rispetto.

Le storie bibliche vivono del riscatto morale e sociale di alcune donne. Ricordiamo Sara, la moglie di Abramo, Rebecca, la moglie di Isacco. Abbiamo già ricordato Rachele, moglie di Giacobbe.

Pennina disprezzava Anna, la umiliava per questa sua condizione. Durante un pellegrinaggio a Silo, Anna pregò così intensamente il Signore, piangendo, che il sacerdote Eli pensò fosse ubriaca. 

Infatti, Anna pregava davanti al Signore non a voce alta o sussurrando come era consueto, ma la forza della sua orazione silenziosa le faceva muovere le labbra. Ecco perché Eli pensava che fosse ubriaca.

Durante quella preghiera Anna promise al Signore che se avesse avuto un figlio maschio lo avrebbe dedicato interamente a Lui: “il rasoio non passerà sul suo capo” (I Samuele 1,11). 

Anna aveva appena promesso di consacrare suo figlio al Signore come nazireo.

Così avvenne, Anna generò Samuele che dopo lo svezzamento fu condotto al servizio del sacerdote Eli al tempio di Silo.

E’ qui che si trovava dunque il piccolo Samuele quando ricevette la chiamata del Signore.

Ma non possiamo proseguire nella nostra meditazione senza attraversare, almeno per un momento, il 2° capitolo di I Samuele il cosiddetto “Cantico di Anna”, innalzato al Signore dopo la nascita di Samuele. E’ un mirabile inno di lode che anticipa quello che sarà il canto del Magnificat di Maria, la madre di Gesù. Come nel Magnificat di Maria, il Cantico di Anna esalta il Signore per la Sua santità, la Sua misericordia e la Sua giustizia. 

Ne ripercorriamo alcuni passaggi: “L’arco dei potenti è spezzato, ma quelli che vacillano sono rivestiti di forza. Quelli che una volta erano sazi si offrono a giornata per il pane, e quanti erano affamati ora anno riposo. La sterile partorisce sette volte, ma la donna che aveva molti figli diventa fiacca. Il Signore fa impoverire e fa arricchire, egli abbassa e innalza. Alza il misero dalla polvere e innalza il povero dal letame, per farli sedere con i nobili, per farli eredi di un trono di gloria; perché le colonne della terra sono del Signore e su queste ha poggiato il mondo”. 

E’ un Canto di liberazione, del riscatto che Dio opera sulle sorti dei suoi figli e delle sue figlie. E’ un Canto meraviglioso di ribaltamento, di avvento del misericordia divina, nel quale il Signore è colui che ha cura del debole che può continuare a vivere nella Sua speranza e nella Sua fiducia.

Ma, nello stesso modo del Magnificat, è anche un Canto di giustizia. Il Signore redime il povero, chi si fa umile ai suoi occhi, ma destina il potente alla polvere. Il prepotente, chi si vanta a scapito del misero, non ha spazio nella visione di Dio ed è lontano dalla Sua presenza.

Fatto questo importante inciso, torniamo ora al nostro brano.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 23 aprile 2023)

ll lezionario “Un giorno, una Parola”, ci propone per la predicazione di questa 2^ domenica dopo Pasqua - Misericordias Domini (La terra è piena della misericordia del Signore - Salmo 33,5) un brano tratto dalla 1^ lettera di Pietro e precisamente 1^ Pietro 5, 1-4.

Come al solito proviamo a fare una breve introduzione di questa lettera particolarmente amata da Lutero, tanto da considerarla, insieme al Vangelo di Giovanni e alle lettere paoline, “il vero nucleo e il midollo fra tutti i libri che giustamente dovrebbero essere i primi”. In un suo commento del 1523 la definì “uno dei più nobili libri del Nuovo Testamento e l’Evangelion autenticamente sincero”. 

Insieme alla lettera di Giacomo, alla seconda Pietro, alle tre lettere di Giovanni e a quella di Giuda, la 1^ Pietro fa parte delle cosiddette lettere “cattoliche”. Qui per cattoliche intendiamo testi che hanno un riferimento e un contenuto universale, ossia che non sono rivolte ad una comunità particolare e che non sono state scritte per risolvere problemi specifici di quella comunità, come le lettere paoline che poi sono comunque diventate testi di riferimento fondamentali, per la testimonianza dell’evangelo e per tutte le chiese. 

La lettera è stata scritta in un contesto in cui erano già in atto delle persecuzioni o, comunque, in cui se ne  avvertiva il pericolo. Anche se qualcuno ha pensato che sia una sorta di liturgia battesimale, in effetti è una esortazione a rimanere radicati nella fede e nella fedeltà a Cristo, a non scoraggiarsi anche nei momenti di massimo  pericolo per le proprie vite e per quella delle comunità.

Il saluto della chiesa “che è in Babilonia”, del versetto 13 dello stesso capitolo 5 è una chiara allusione a Roma e al suo potere, anche alle persecuzioni.

L’autore è davvero Pietro, ossia Simone, l’apostolo? Non ne siamo sicuri sia per l’epoca incerta di compilazione della lettera, sia per lo stile con la quale è stata scritta, tanto linguistico (un raffinatissimo greco), quanto teologico (con evidenti punti di contatto con gli scritti paolini). Questi due elementi fanno prevalere la tesi che si tratti di un caso di pseudoepigrafia, ossia di un scritto che un autore, o un gruppo di discepoli, ha intestato ad un personaggio riconosciuto e apprezzato da diverse comunità (quale sicuramente doveva essere Pietro) per conferirgli maggiore autorevolezza. Non dobbiamo scandalizzarci di questo espediente, perché nell’antichità era una pratica molto diffusa e serviva non solo ad attribuire prestigio alla composizione, ma anche ad esplicitare meglio e  attualizzare il pensiero del maestro.

Nei quattro versetti del nostro testo, l’autore della lettera si rivolge agli anziani di alcune comunità dell’Asia Minore. 

Ma chi erano questi anziani? Non erano certo le persone più in là negli anni, ma fratelli (dai, se pure pochi, riferimenti degli atti degli apostoli e delle lettere di Paolo, nelle quali viene esplicitamente utilizzato nei confronti di alcune donne il termine greco che tradotto correttamente significa “diaconesse”, possiamo sicuramente parlare anche di sorelle) a cui era stato assegnato un ministero, una responsabilità nell’ambito della comunità di fede.

Gli anziani avevano il compito di pascere, di condurre il gregge di Dio, ossia i credenti e le credenti. L’autore della Lettera li chiama a farlo sentendosi partecipi delle sofferenze di Cristo e proprio per questa partecipazione sono esortati a schivare i percoli insiti in qualsiasi posizione di potere che, anche all’interno della chiesa, rischia di deviare, o addirittura di corrompere, il mandato ricevuto.

L’unione con Cristo rigetta ogni tipo di obbligo, tutto deve essere compiuto volenterosamente, senza approfittarne dal punto di vista economico (non arricchirsi a spese degli altri), con umiltà e senza abusi (potremmo dire di potere) che potrebbero indurre alla tentazione di disporre a proprio piacimento degli altri e delle altre. 

Gli anziani sono a chiamati a comportarsi come persone che servono la comunità e non come coloro che si servono della comunità.

La parola servizio ha un significato chiaro, abbastanza semplice, ma è talmente abusato che rischia di assumere purtroppo una connotazione non sempre positiva.

Quante volte abbiamo ascoltato, e ascoltiamo politici, e non, con le loro rassicurazioni sul desiderio di porsi solo al servizio della comunità, ma invece, dietro questa frase retorica, nascondono un intento, se non truffaldino, quanto meno di approfittamento personale e di gestione di un potere fine solo a se stesso, talvolta disumano.

Questa malattia può riguardare però non solo i politici, ma è in grado di infettare ogni ambito della società, dalla bocciofila alla più grande associazione di volontariato. Quando si raggiungono piccole e grandi posizioni di potere si rischia sempre di smarrire i fini e di considerare la cosa più importante i mezzi, che sono solo quelli poi ritenuti utili a perpetuare il proprio potere e la propria ricchezza.

L’autore della 1^ Pietro aveva ben chiaro in mente tutto ciò e sapeva che una tale possibile infezione rappresentava il più grave pericolo per gli stessi anziani, le anziane e per tutta la comunità: il pericolo di non agire secondo Dio.

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