Ebrei 5,1-10
(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 26 marzo 2023)
Il testo per la predicazione che ci propone il lezionario “Un giorno, una Parola” per questa 5^ domenica “del Tempo di Passione - Judica (Fammi giustizia, o Dio - Salmo 43,1) è tratta dalla prima epistola di Paolo ai Corinzi, capitolo 13, versetti da 1 a 13.
Il testo che abbiamo appena letto fa parte di una lettera che in realtà non è una lettera, ma una predicazione, un’esortazione che l’autore rivolge ad un gruppo di cristiani per confortarli e invitarli a mantenersi fermi nella fede in Gesù Cristo nonostante le persecuzioni e le difficoltà.
In origine era stata attribuita a Paolo, ma in effetti l’autore è sconosciuto. Origene diceva che “solo Dio sa chi ha scritto la lettera agli ebrei”.
Non se conoscono nemmeno i destinatari, nonostante il titolo reca “Lettera agli Ebrei” che però è stato attribuito tardivamente rispetto alla sua composizione.
Anche il periodo della sua stesura non è noto.
E’ stata inserita definitivamente nel Canone solo durante il IV secolo.
Ed è anche una composizione che usa un vocabolario sacerdotale, quasi del tutto assente dagli altri testi del Nuovo Testamento.
Dobbiamo subito sgombrare il campo da qualsiasi possibile equivoco.
Purtroppo, nel corso dei secoli, soprattutto dopo il 380 d.C. quando il cristianesimo diventò religione di Stato con l’editto di Tessalonica dell’imperatore Teodosio, di questa Lettera spesso se ne è fatta una lettura ideologica alimentando sentimenti antigiudaici e antisemiti che sono stati all’origine della persecuzione dei nostri fratelli ebrei sino alla tragedia immane della Shoah.
La maggior parte delle chiese, dopo la seconda guerra mondiale, ha fatto delle confessioni pubbliche di peccato riconoscendo i propri drammatici errori teologici e umani.
Dobbiamo perseverare su questa strada della riconciliazione perché come dice Paolo, nel capitolo 11 della Lettera ai Romani, noi tagliati dall’olivo selvatico siamo rami innestanti sulla radice santa dell’olivo domestico dell’ebraismo.
E’ chiaro che anche noi, nel provare a commentare questo testo, siamo chiamati a farlo disinnescando ogni antisemitismo e antigiudaismo.
Ricordiamoci che il Nuovo Testamento è denso di richiami alla Legge e ai Profeti.
Anche nell’episodio della trasfigurazione sul monte accanto a Gesù ci sono Elia e Mosè.
Gesù stesso dice “
“In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto” (Mt 5, 18).
Per iota si intende il più piccolo dettaglio, ciò che potrebbe apparire insignificante.
Chi è Gesù? E’ la domanda fondamentale che l’autore della Lettera si pone. A questa domanda risponde: è una figura di sommo sacerdote.
Con questa risposta la Lettera agli Ebrei traccia il filo sottile, ma robusto, di continuità tra il Nuovo Testamento e l’Antico.
La buona notizia dell’Evangelo si innesta nel lungo e ricco cammino delle profezie e ci conduce direttamente a Cristo: è Lui il nuovo e definitivo sacerdote dell’umanità
In questa prospettiva ci muoviamo sempre all’interno delle Scritture, non c’è alcuna rottura se non quella che la storia degli uomini ha poi purtroppo prodotto dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C.
I punti di congiunzione sono chiaramente rintracciabili nel sacerdozio aronitico e, ancora indietro, in quello di Melchisedec.
Abramo, si fece benedire da Melchisedec, ed è il primo patriarca, il capostipite di ogni credente. Mosè e Aaronne hanno liberato Israele dalla schiavitù dell’Egitto e sono i modelli della liberazione da ogni forma di oppressione, tanto che anche i canti spirituals dei neri di America, di lotta contro la segregazione razziale, si sono ispirati alla loro storia.
E’ chiaro che nella ricostruzione teologica dell’autore della lettera agli Ebrei il sacrificio di Gesù innalza il Cristo ad un sacerdozio nuovo, ad un sacerdozio che rompe la catena familiare ed ereditaria delle discendenze sacerdotali e nello stesso tempo collega questo sacerdozio al primo sacerdozio che troviamo nella Bibbia in Genesi 14,17-20: Melchisedec re di Salem e sacerdote del Dio altissimo.
Sta tutta qui l’originalità della lettera agli Ebrei.
Mentre il sacerdozio levitico era fondato sul patto del Sinai, il sacerdozio di Cristo deriva dall’alto salvifico definitivo, cioè dalla sua morte e resurrezione
Sulla stessa morte e resurrezione di Gesù sta in piedi o crolla la nostra fede. Su questo evento ci giochiamo tutto quello che siamo, perciò egli è, secondo l’autore del nostro testo, l’ultimo sommo sacerdote, e anche il più grande.
E’ altrettanto chiaro che, per giungere a questa conclusione, lo stesso anonimo autore ha una concezione positiva del sacerdozio.
Il sacerdote avvicina l’uomo a Dio e Dio all’uomo, è un mediatore che sta tra la divinità e l’umanità e svolge una funzione importante, ma la svolge pur sempre nella sua condizione umana, nella sua debolezza.