(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 26 marzo 2023)

Il testo per la predicazione che ci propone il lezionario “Un giorno, una Parola” per questa 5^ domenica “del Tempo di Passione - Judica (Fammi giustizia, o Dio - Salmo 43,1) è tratta dalla prima epistola di Paolo ai Corinzi, capitolo 13, versetti da 1 a 13.

Ebrei 5,1-10

Il testo che abbiamo appena letto fa parte di una lettera che in realtà non è una lettera, ma una predicazione, un’esortazione che l’autore rivolge ad un gruppo di cristiani per confortarli e invitarli a mantenersi fermi nella fede in Gesù Cristo nonostante le persecuzioni e le difficoltà.

In origine era stata attribuita a Paolo, ma in effetti l’autore è sconosciuto. Origene diceva che “solo Dio sa chi ha scritto la lettera agli ebrei”. 

Non se conoscono nemmeno i destinatari, nonostante il titolo reca “Lettera agli Ebrei” che però è stato attribuito tardivamente rispetto alla sua composizione. 

Anche il periodo della sua stesura non è noto.

E’ stata inserita definitivamente nel Canone solo durante il IV secolo.

Ed è anche una composizione che usa un vocabolario sacerdotale,  quasi del tutto assente dagli altri testi del Nuovo Testamento.

Dobbiamo subito sgombrare il campo da qualsiasi possibile equivoco.

Purtroppo, nel corso dei secoli, soprattutto dopo il 380 d.C. quando il cristianesimo diventò religione di Stato con l’editto di Tessalonica dell’imperatore Teodosio, di questa Lettera spesso se ne è fatta una lettura ideologica alimentando sentimenti antigiudaici e antisemiti che sono stati all’origine della persecuzione dei nostri fratelli ebrei sino alla tragedia immane della Shoah.

La maggior parte delle chiese, dopo la seconda guerra mondiale, ha fatto delle confessioni pubbliche di peccato riconoscendo i propri drammatici errori teologici e umani. 

Dobbiamo perseverare su questa strada della riconciliazione perché come dice Paolo, nel capitolo 11 della Lettera ai Romani, noi   tagliati dall’olivo selvatico siamo rami innestanti sulla radice santa dell’olivo domestico dell’ebraismo.

E’ chiaro che anche noi, nel provare a commentare questo testo, siamo chiamati a farlo disinnescando ogni antisemitismo e antigiudaismo.

Ricordiamoci che il Nuovo Testamento è denso di richiami alla Legge e ai Profeti. 

Anche nell’episodio della trasfigurazione sul monte accanto a Gesù ci sono Elia e Mosè.

Gesù stesso dice “

“In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto” (Mt 5, 18).

Per iota si intende il più piccolo dettaglio, ciò che potrebbe apparire insignificante. 

Chi è Gesù? E’ la domanda fondamentale che l’autore della Lettera si pone. A questa domanda risponde: è una figura di sommo sacerdote. 

Con questa risposta la Lettera agli Ebrei traccia il filo sottile, ma robusto, di continuità tra il Nuovo Testamento e l’Antico.

La buona notizia dell’Evangelo si innesta nel lungo e ricco cammino delle profezie e ci conduce direttamente a Cristo: è Lui il nuovo e definitivo sacerdote dell’umanità

In questa prospettiva ci muoviamo sempre all’interno delle Scritture, non c’è alcuna rottura se non quella che la storia degli uomini ha poi purtroppo prodotto dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C.

I punti di congiunzione sono chiaramente rintracciabili nel sacerdozio aronitico e, ancora indietro, in quello di Melchisedec.

Abramo, si fece benedire da Melchisedec, ed è il primo patriarca, il capostipite di ogni credente. Mosè e Aaronne hanno liberato Israele dalla schiavitù dell’Egitto e sono i modelli della liberazione da ogni forma di oppressione, tanto che anche i canti spirituals dei neri di America, di lotta contro la segregazione razziale, si sono ispirati alla loro storia.

E’ chiaro che nella ricostruzione teologica dell’autore della lettera agli Ebrei il sacrificio di Gesù innalza il Cristo ad un sacerdozio nuovo, ad un sacerdozio che rompe la catena familiare ed ereditaria delle discendenze sacerdotali e nello stesso tempo collega questo sacerdozio al primo sacerdozio che troviamo nella Bibbia in Genesi 14,17-20: Melchisedec re di Salem e sacerdote del Dio altissimo.

Sta tutta qui l’originalità della lettera agli Ebrei.

Mentre il sacerdozio levitico era fondato sul patto del Sinai, il sacerdozio di Cristo deriva dall’alto salvifico definitivo, cioè dalla sua morte e resurrezione

Sulla stessa morte e resurrezione di Gesù sta in piedi o crolla la nostra fede. Su questo evento ci giochiamo tutto quello che siamo, perciò egli è, secondo l’autore del nostro testo, l’ultimo sommo sacerdote, e anche il più grande.

E’ altrettanto chiaro che, per giungere a questa conclusione, lo stesso anonimo autore ha una concezione positiva del sacerdozio.

Il sacerdote avvicina l’uomo a Dio e Dio all’uomo, è un mediatore che sta tra la divinità e l’umanità e svolge una funzione importante, ma la svolge pur sempre nella sua condizione umana, nella sua debolezza.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 19 febbraio 2023)

Il testo per la predicazione che ci propone il lezionario “Un giorno, una Parola” per questa domenica “Esto Mihi” (Sii per me una forte rocca! - Salmo 31,2) è tratta dalla prima epistola di Paolo ai Corinzi, capitolo 13, versetti da 1 a 13.

1 Corinzi 13,1-13

Care sorelle, cari fratelli,

abbiamo oggi di fronte una delle più belle composizioni di Paolo, l’inno alla carità, meglio all’amore. In questi versetti è racchiuso tutto il senso del cristianesimo.

Vorrei fare però subito un inciso, che ci può dare anche il senso di quello che diremo nel corso di questa riflessione.

Siamo ancora nella settimana che ci ricorda un evento straordinario della nostra storia. Il 17 febbraio del 1848 Re Carlo Alberto concedeva a noi valdesi, con le cosiddette “lettere patenti”, le libertà civili e politiche. Dopo circa un mese le stesse libertà furono concesse ad un’altra minoranza: gli ebrei. Non fu però ancora libertà religiosa. 

La situazione odierna non è certo paragonabile a quella della metà dell’800. Certamente godiamo della possibilità di professare liberamente il nostro culto, di esercitare i nostri diritti anche religiosi, ma enormi passi avanti andrebbero fatti per realizzare la piena libertà religiosa tra tutte le fedi. Come sappiamo in Italia c’è una forte sperequazione a favore di una determinata confessione religiosa, pensiamo (solo per fare un esempio) al campo della pubblica istruzione, e solo una equilibrata legge sulla libertà religiosa, pienamente rispettosa dei principi sanciti nella nostra Costituzione Repubblicana, potrebbe sanare i privilegi e garantire finalmente una condizione di reale e sostanziale parità.

Proprio queste considerazioni ci consentono di trovare l’aggancio con il brano della prima lettera ai Corinzi che abbiamo appena letto: “l’amore è (voce del verbo essere) libertà” e “la libertà è (sempre voce del verbo essere) amore”. Potremmo anche dire che non c’è libertà senza amore e che non c’è amore senza libertà.

Scorrendo il testo di Paolo il legame è evidente, se si guarda alle qualità dell’amore elencate dall’apostolo non c’è dubbio che sono le stesse che riguardano la libertà.

L’amore ci rende liberi e la libertà ci consente di amare senza alcuna costrizione.

Paolo, poi, ci offre una chiave eccezionale per comprendere questo legame profondo tra amore e libertà. La troviamo al capitolo 3 del versetto 17 della seconda Corinzi: “Ora il Signore è lo Spirito; e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà”.

Spirito del Signore, amore, libertà hanno uno svolgimento circolare: c’è lo Spirito del Signore, poi ci sono l’amore e la libertà e tutte e tre insieme ci conducono, se li accogliamo, in una dimensione sublime, che è quella della perfezione donataci da Cristo con la sua venuta sulla terra, la sua morte e la sua resurrezione, nel suo amore senza limiti.

Mia mamma spesso mi ripete che mio nonno quando aveva di fronte dei problemi quasi insolubili esclamava: “ci vorrebbe la mente di Paolo”.

Ecco la mente di Paolo ha davvero fatto il suo grande lavoro, ma anche la sua mente non era qualcosa che vagava per i fatti suoi, perché era a sua volta ancorata allo Spirito del Signore.

Tutto, quindi, parte dallo Spirito che ci ha lasciato Gesù Cristo. E’ lo Spirito il motore di ogni bene, è Lui che ci guida lungo la strada dell’amore e della libertà.

Tornando al nostro testo, potremmo suddividere le parole di Paolo in cinque parti per poi arrivare alla conclusione.

Nella prima parte (versetti da 1 a 3) l’apostolo ci spoglia di tutte le nostre presunzioni, annulla tutto ciò che potrebbe essere il nostro vanto: parlare più lingue, il dono delle profezie e della scienza, persino la fede, il nostro stesso donarsi attraverso le elemosine e il sacrifico del nostro corpo, sono niente di fronte all’amore. 

E’ spontaneo chiederci: ma cos’è questo amore totalizzante che supera tutto, che batte addirittura la fede e il dono di se stessi, ma, forse meglio, potremmo chiederci chi è questo amore? 

La risposta non può essere altra che questo amore è Gesù: Lui liberamente si è offerto per noi ai suoi carnefici con un atto volontario e coerente ai suoi gesti e alla sua predicazione. Gesù è l’amore che sublima tutto il resto, che travolge ogni umana comprensione, che travalica ogni possibile opera che possiamo compiere nella nostra vita. Niente è paragonabile a questa bellezza, a questa profondità.

Gesù, però, è questo amore perché era un uomo libero, un uomo che è stato coerente nella sua dedizione verso il Padre suo e verso gli uomini dall’inizio della sua missione sino alla fine, dal primo giorno all’ultimo. E’ sulla sua libertà che Gesù ha fondato l’amore di cui parla Paolo. Se Gesù fosse stato costretto, se non avesse avuto scelta, questo amore non si sarebbe potuto manifestare. Esercitando la sua libertà si è volontariamente abbandonato ad una morte ignominiosa. 

Siamo al momento della cattura nel giardino dello Getsemani: "Ed ecco, uno di quelli che erano con lui, stesa la mano, prese la spada, la sfoderò e, colpito il servo del sommo sacerdote, gli recise l'orecchio. 52 Allora Gesù gli disse: «Riponi la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, periranno di spada. 53 Credi forse che io non potrei pregare il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni d’angeli?” (Matteo 26, 51-53).

Tutta la vita e la testimonianza di Gesù sono state libere, non si sono mai piegate ai conformismi, alle facili scappatoie. Le sue relazioni sono state libere con chiunque incontrava, con i peccatori, i pubblicani, le donne, le prostitute, i samaritani. Con la sua libertà si è opposto ad ogni sterile legalismo, per andare incontro solo a ciò che recava misericordia, perdono, riconciliazione, in una parola alla vita. Questa libertà l’ha vissuta come Figlio di Dio e l’ha offerta a tutte e tutti coloro che credono in lui perché fossero anche loro libere e liberi. Per essere fedeli a Cristo dobbiamo assumerla come nostra questa libertà. 

Purtroppo, nel corso della storia del cristianesimo questa libertà ci è stata conculcata, ne siamo stati privati, però ci sono stati credenti, nostre sorelle e nostri fratelli, che, pur tra grandi sofferenze, si sono comportati da donne e uomini libere e liberi ed è grazie a loro che oggi siamo qui a proclamare questa Parola.

Nella seconda parte in cui abbiamo suddiviso il testo, nei versetti da 4 a 8, Paolo ci spiega quali sono le caratteristiche dell’amore sia in negativo che in positivo. Sono gli attributi dell’amore che si proietta oltre ogni convenienza umana, oltre ogni speculazione, ogni oltre invidia e oltre ogni vanto, oltre ogni tentazione di godere del male dell’altro o dell’altra, di approfittarne per i propri interessi egoistici. L’amore è invece benevolo, gioisce nella verità, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa.  Se l’amore non fosse così, sarebbe solo ipocrisia, si nutrirebbe di falsità.

Anche in questo passaggio non possiamo che trovarci davanti la persona di Gesù. Solo lui è questo amore perfetto, che non ha remore nel donarsi, che si da interamente senza alcuna pretesa per se. Tutta l’esistenza di Gesù è fondata su questo amore sconfinato che ci fa venire le vertigini, tanto da portare a chiederci: ma come posso fare io a raggiungere questa pienezza? E’ impossibile. Si, se guardiamo le nostre miserie, se esaminiamo davvero il nostro cuore è davvero impossibile. Come faccio io, così invidioso, così gonfio di vanto e di orgoglio, così attaccato ai miei interessi, così pronto a giudicare e a godere del male degli altri, così poco paziente, a generare un amore così grande? 

Noi lo proclamiamo questo amore con troppa leggerezza, forse anche oggi, indegnamente. Dobbiamo maneggiarlo con cura, con tremore e timore, perché questo amore è descritto con parole radicali che non saremmo mai davvero capaci di portare per intero dentro noi stessi, li dove abitano i nostri sentimenti.

E, allora, che fare?

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 15 gennaio 2023)

Il lezionario “Un giorno, una parola”, ci propone come testo per la riflessione di questa 2^ domenica dopo l’Epifania un passo tratto dal Libro dell’Esodo, capitolo 33, versetti da 18 a 23. 

Esodo 33,18-23

Care sorelle, cari fratelli,

Il brano che abbiamo di fronte, questa domenica, contiene 6 versetti di una densità spirituale e teologica altissima. Ci innalzano verso livelli sublimi della fede e allo stesso tempo ci pongono davanti a questioni davvero fondamentali.

Vorrei porre subito alla vostra attenzione un interrogativo importante, che riguarda i versetti da 21 a 23, che poi riprenderemo:

21 E il SIGNORE disse: «Ecco qui un luogo vicino a me; tu starai su quel masso; 22 mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; 23 poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere».

Stiamo davanti a un Dio che gioca con Mosè e con gli uomini a nascondino. 

Così, dopo una lettura superficiale, potremmo commentare il passo biblico appena condiviso. Probabilmente ognuno di noi, qualche volta nel corso della propria vita, ha sperimentato una condizione di incertezza, quasi di dubbio, di fronte a un Dio che sembra apparire, poi scomparire improvvisamente e non farsi “vedere”, non farci avvertire la sua presenza per tanto tempo, lasciandoci con tante domande aperte e irrisolte.

Ma è proprio così, siamo al cospetto di un Dio burlone, di un Dio che si fa beffe di noi?

Lo vedremo, ma intanto dobbiamo contestualizzare ciò che abbiamo letto. Ci troviamo in un preciso punto della storia della salvezza del popolo d’Israele, un momento drammatico, decisivo. Mosè era sceso dal Sinai con le Tavole della Legge, con le dieci parole che il Signore gli aveva affidato perché il popolo seguisse le sue vie e non sbandasse. Ma Israele non aveva avuto pazienza, aveva perso la fiducia e si era fatto un vitello d’oro da adorare al posto di Yhwh, un idolo che si ponesse alla sua testa. 

“Il popolo vide che Mosè tardava a scendere dal monte; allora si radunò intorno ad Aaronne e gli disse: «Facci un dio che vada davanti a noi; poiché quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che fine abbia fatto». 2 E Aaronne rispose loro: «Staccate gli anelli d'oro che sono agli orecchi delle vostre mogli, dei vostri figli e delle vostre figlie, e portatemeli». 3 E tutto il popolo si staccò dagli orecchi gli anelli d'oro e li portò ad Aaronne. 4 Egli li prese dalle loro mani e, dopo aver cesellato lo stampo, ne fece un vitello di metallo fuso. E quelli dissero: «O Israele, questo è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto!» 5 Quando Aaronne vide questo, costruì un altare davanti al vitello ed esclamò: «Domani sarà festa in onore del SIGNORE!» 6 L'indomani, si alzarono di buon'ora, offrirono olocausti e portarono dei sacrifici di ringraziamento; il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per divertirsi” (Esodo 32,1-6).

Dio sul monte aveva avvisato Mosè di quello che stava succedendo e aveva minacciato di scatenare la propria ira contro il popolo, riconoscendo però l’integrità di Mosè e promettendogli di farlo diventare una grande nazione. Ma Mosè, con grande umiltà e rinunciando al proprio privilegio, pregò il Signore perché rinunciasse alla vendetta e Dio si pentì subito del male che aveva minacciato.

Annotiamo anche queste parole Dio “si penti subito”: è un altro aspetto che riprenderemo pure tra poco.

Mosè, quindi, scese dal monte all’accampamento, vide quello che il Signore gli aveva già descritto e distrusse tanto le Tavole della legge quanto il vitello d’oro.

E’ un momento di crisi terribile, la rottura delle Tavole della Legge e la riduzione in polvere del vitello d’oro ha un significato che va ben oltre l’aspetto materiale, significa anche una prima rottura dell’amicizia con Dio, un’infedeltà che poi, qualche secolo dopo, sfocerà nell’idolatria diffusa, nell’allontanamento del popolo dal Signore, nella distruzione del Tempio di Gerusalemme e nella deportazione a Babilonia. 

Ci verrebbe da dire: che scellerati, Dio li ha tratti dalla schiavitù dell’Egitto e alla prima occasione gli si sono rivoltati contro. Qui faccio un breve inciso, per osservare semplicemente che questa infedeltà non riguarda solo il popolo d’Israele ma ci coglie da vicino con le mani nella marmellata. In mezzo a quel popolo che faceva festa davanti ad un idolo muto, sordo e cieco ci siamo anche noi che talvolta ci illudiamo e ci trastulliamo con gli idoli delle nostre vite. Non dimentichiamo che la confessione di peccato della nostra liturgia serve proprio a fare memoria di tutte le volte che ci siamo resi nemici non solo nei confronti di Dio ma anche del nostro prossimo.

Come nell’annuncio del perdono che segue la confessione dei peccati, Dio però ricuce, dice a Mosè di riferire agli Israeliti che, si sono un popolo di dura cervice, ma non li abbandona. Nonostante tutto sta lì, a dispetto dell’altrui infedeltà Lui si mantiene fedele e, proprio all’inizio del capitolo 33 del libro dell’Esodo, ordina a Mosè di partire verso la terra promessa, la terra dove scorrono latte e miele.   

Ma Mosè, lo possiamo leggere nei versetti che vanno da 12 a 16 dello stesso capitolo 33, vuole essere rassicurato dal Signore circa la Sua presenza durante il viaggio, sa benissimo che senza la presenza e l’aiuto di Dio tutto sarebbe destinato ad un misero fallimento. Si rivolge al Signore con una preghiera bellissima: “Se il tuo volto non camminerà con noi, non farci salire da qui. Come si saprà che ho trovato grazia ai tuoi occhi, io e il tuo popolo, se non nel fatto che tu cammini con noi?”

Dio lo rassicura una prima volta, ma Mosè preso ancora dalla paura di restare solo, gli fa una domanda esplicita: “Ti prego fammi vedere la tua Gloria!”.

Ci dice tanto questo dialogo tra Mosè e il Signore. Dio non fa il permaloso, non prende le richieste di Mosè come una mancanza di fiducia, ma risponde: “Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà, proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te; farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò pietà di chi vorrò avere pietà».

Con queste parole Dio comunica a Mosè, e anche a noi, quali sono gli attributi, le caratteristiche della sua divinità.

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 2 dicembre 2022)

Il lezionario “Un giorno, una parola”, ci propone come testo per la riflessione di questa 2^ domenica di Avvento un passo tratto dal Cantico dei Cantici, capitolo 2, versetti da 8 a 13. 

Cantico dei Cantici 2,8-13

Care sorelle, cari fratelli,

con il Cantico dei Cantici raggiungiamo le vette della poesia dell’Antico Testamento, della Bibbia intera e non solo.

Prima di andare al nostro testo non possiamo non chiederci cosa ci faccia un libro così "profano" all’interno del canone biblico. Un testo che narra della passione e dell’amore tra una donna e un uomo, un testo in cui apparentemente Dio non compare. Un libro che sembra spuntare in mezzo alla Bibbia come un oggetto misterioso, non identificato, un ufo delle scritture. Ma è così, è un testo davvero profano, non ci dice niente davvero di Dio? 

Eppure, se il Cantico dei Cantici è stato inserito nel canone biblico un motivo c’è, e possiamo dire che l’ispirazione divina ci ha regalato qualcosa di ineguagliabile, di meravigliosamente sublime.

In effetti, lo stesso titolo del libro è un superlativo per esprimere il senso del “canto sublime”, del "canto per eccellenza”.

Durante il I secolo e.v. c’erano rabbini che dubitavano della canonicità del testo, ma poi l’assemblea rabbinica di Jamne, una località palestinese dove, secondo alcune tradizioni, nel 90 e.v. fu fissato il canone della bibbia ebraica, ne ratificò la piena legittimità a far parte del canone biblico. Celebre è il commento di Rabbi Aqiba: “Il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato dato Israele. Tutti i libri biblici sono santi, ma il Cantico è santo dei santi”.

A maggiore conferma di ciò, Il Cantico fa parte delle “megillot”, cioè è uno dei cinque rotoli che sono letti integralmente durante le feste più importanti dell’ebraismo. Il Cantico è letto nella festa centrale che le contiene tutte, cioè durante la Pasqua ebraica.

Non dobbiamo però nasconderci che il testo del Cantico ha creato molto imbarazzo nella sua interpretazione. Per giustificarne la presenza nel canone, lo si è interpretato “allegoricamente”, gli è stato attribuito un significato spirituale che è andato dal rapporto di Dio con il suo popolo d’Israele, poi all’amore tra il Signore e la Chiesa, all’anima del credente unita al suo Dio e c’è chi addirittura lo ha riferito a Maria la madre di Gesù.

Ma niente di tutto ciò ha a che fare, però, con il testo del Cantico che è si ricco di contenuti spirituali ma non nel senso delle allegorie che gli sono state attribuite. Il senso spirituale del Cantico è la celebrazione dell’amore umano, dell’amore sensuale e della stessa creazione divina. In ciò si celebra pienamente l’amore di Dio per gli uomini e le donne. Nella Genesi ci viene detto che, dopo ogni suo atto creativo, Dio vide “che era buono”, forse la traduzione migliore è “bello”, e che dopo aver creato l’umano, maschio e femmina, a sua immagine “vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono” (Genesi 1,31). Si, tutto quello che aveva fatto era molto bello. Gli elementi della natura, il maschio e la femmina con i loro sensi erano stati creati in modo armonioso ed equilibrato. Dio poteva veramente gloriarsi della Sua meravigliosa opera.

Ecco dove il Cantico dei Cantici, trova la sua dignità di libro della Scrittura, di libro che “contamina le mani” come dicono i rabbini. E non c’è forse altro libro della Scrittura la cui lettura e meditazione contamina non solo le mani ma tutto il nostro essere di maschi e femmine nella pienezza più grande. Ricordiamo che per gli ebrei non c’è separazione tra corpo, spirito e anima, l’umano è un essere integrale, unitario. Il cuore è al centro di tutto e determina il pensare e l’agire di ogni giorno.

L’influenza della cultura greca ci ha portato probabilmente fuori strada, ci ha quasi imposto a pensare che tutto ciò che è spirituale va innalzato e tutto ciò che è materiale va scartato perchè non è degno dell’umano. Ma Dio ci ha desiderati proprio così come siamo, con i nostri corpi, con tutti i nostri sentimenti e anche con le nostre pulsioni più recondite.

Il Cantico è la glorificazione dell’amore terreno, dell’amore tra due esseri umani in carne e ossa e come tale celebra magnificamente il Dio creatore. 

(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 23 ottobre 2022)

Il lezionario “Un giorno, una parola”, ci propone come testo per la riflessione di questa 20^ domenica dopo Pentecoste Marco, capitolo 2, versetti da 1 a 12.

Marco 2,1-12

Care sorelle, cari fratelli,

Il nostro testo, secondo la traduzione della Nuova Riveduta, inizia con: “dopo alcuni giorni…”. 

Ma cosa era successo prima del racconto di oggi? Marco conclude il 1° capitolo del suo Evangelo narrandoci la purificazione da parte di Gesù di un lebbroso che lo aveva pregato in ginocchio. Gesù lo purifica e lo manda, nel rispetto della Torah, a recarsi dal sacerdote per mostrarsi e offrire ciò che Mosè ha prescritto perché fosse come testimonianza per loro. Solo il sacerdote poteva accertare la guarigione dalla lebbra, nessun altro. Sappiamo bene che il lebbroso era considerato una persona impura, costretta a vivere lontano da villaggi e città e quindi socialmente emarginato. Doveva portare le vesti strappate e il capo scoperto; coprirsi la barba e gridare: "Impuro! Impuro!" Quindi alla sofferenza fisica, si aggiungeva quella morale.

Tra l’altro la comparsa della lebbra, come delle altre malattie, era associata al peccato, il lebbroso o qualcuno dei suoi antenati avevano commesso qualcosa di male e ora il giudizio divino faceva “giustizia”, si abbatteva sul malcapitato. Già però Ezechiele 18 avvisava che le colpe e i meriti dei padri non debbono ricadere sui figli, né quelle dei figli sui padri, smentendo il famoso proverbio: "I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati”. Ma, nonostante la parola di Ezechiele, la convinzione rimaneva tant’è che nell’Evangelo di Giovanni al capitolo 9, quando Gesù incontra un cieco nato, i suoi discepoli gli chiedono «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» Conosciamo la risposta di Gesù «Né lui ha peccato, né i suoi genitori…». 

Nell’azione, narrata al termine del capitolo 1 dell’Evangelo di Marco, è scritto che Gesù purifica il lebbroso non che lo guarisce. E’ un particolare importante che riprenderemo nel prosieguo della nostra meditazione. 

Dalla conclusione dello stesso capitolo 1 leggiamo pure che Gesù era molto popolare: “Tutta la città era davanti alla porta della casa di Simone e Andrea” (1,33), “Tutti ti cercano” gli dicono Simone e gli altri (1,37) forse abbagliati da cotanta notorietà e “successo”. Ma Gesù preferiva rimanere fuori, in luoghi deserti perché aveva coscienza di non essere una “superstar”, un mago, un guaritore come i tanti che giravano a quel tempo per le strade della Palestina, ma aveva ben presente la necessità e l’urgenza della sua missione di salvezza, della sua vocazione, che richiedeva, in alcuni momenti, anche la solitudine, e  sempre la preghiera.

Ritorniamo però al nostro testo, Gesù dunque torna a Cafarnao, nella casa di Simone e Andrea e cosa succede? Il racconto di Marco, come nel suo stile, è stringato, essenziale, ma in poche battute ci consente di capire il significato di quello che Gesù ha operato.

Potremmo suddividere il racconto in più scene.

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