(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 23 ottobre 2022)

Il lezionario “Un giorno, una parola”, ci propone come testo per la riflessione di questa 20^ domenica dopo Pentecoste Marco, capitolo 2, versetti da 1 a 12.

Marco 2,1-12

Care sorelle, cari fratelli,

Il nostro testo, secondo la traduzione della Nuova Riveduta, inizia con: “dopo alcuni giorni…”. 

Ma cosa era successo prima del racconto di oggi? Marco conclude il 1° capitolo del suo Evangelo narrandoci la purificazione da parte di Gesù di un lebbroso che lo aveva pregato in ginocchio. Gesù lo purifica e lo manda, nel rispetto della Torah, a recarsi dal sacerdote per mostrarsi e offrire ciò che Mosè ha prescritto perché fosse come testimonianza per loro. Solo il sacerdote poteva accertare la guarigione dalla lebbra, nessun altro. Sappiamo bene che il lebbroso era considerato una persona impura, costretta a vivere lontano da villaggi e città e quindi socialmente emarginato. Doveva portare le vesti strappate e il capo scoperto; coprirsi la barba e gridare: "Impuro! Impuro!" Quindi alla sofferenza fisica, si aggiungeva quella morale.

Tra l’altro la comparsa della lebbra, come delle altre malattie, era associata al peccato, il lebbroso o qualcuno dei suoi antenati avevano commesso qualcosa di male e ora il giudizio divino faceva “giustizia”, si abbatteva sul malcapitato. Già però Ezechiele 18 avvisava che le colpe e i meriti dei padri non debbono ricadere sui figli, né quelle dei figli sui padri, smentendo il famoso proverbio: "I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati”. Ma, nonostante la parola di Ezechiele, la convinzione rimaneva tant’è che nell’Evangelo di Giovanni al capitolo 9, quando Gesù incontra un cieco nato, i suoi discepoli gli chiedono «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» Conosciamo la risposta di Gesù «Né lui ha peccato, né i suoi genitori…». 

Nell’azione, narrata al termine del capitolo 1 dell’Evangelo di Marco, è scritto che Gesù purifica il lebbroso non che lo guarisce. E’ un particolare importante che riprenderemo nel prosieguo della nostra meditazione. 

Dalla conclusione dello stesso capitolo 1 leggiamo pure che Gesù era molto popolare: “Tutta la città era davanti alla porta della casa di Simone e Andrea” (1,33), “Tutti ti cercano” gli dicono Simone e gli altri (1,37) forse abbagliati da cotanta notorietà e “successo”. Ma Gesù preferiva rimanere fuori, in luoghi deserti perché aveva coscienza di non essere una “superstar”, un mago, un guaritore come i tanti che giravano a quel tempo per le strade della Palestina, ma aveva ben presente la necessità e l’urgenza della sua missione di salvezza, della sua vocazione, che richiedeva, in alcuni momenti, anche la solitudine, e  sempre la preghiera.

Ritorniamo però al nostro testo, Gesù dunque torna a Cafarnao, nella casa di Simone e Andrea e cosa succede? Il racconto di Marco, come nel suo stile, è stringato, essenziale, ma in poche battute ci consente di capire il significato di quello che Gesù ha operato.

Potremmo suddividere il racconto in più scene.

Nella prima Gesù è nella casa di Simone e Andrea a Cafarnao. Si diffonde la voce del suo ritorno e numerose persone si radunano tanto che non vi era più posto neanche davanti alla porta. Gesù non si tira indietro e fa quello per cui è stato mandato dal Padre suo e nostro: annunciare, predicare la Parola. Possiamo immaginare anche le persone che attirate dal Maestro si accalcano, stendono il collo per ascoltarlo meglio, per non perdersi neanche una parola di quello che Gesù diceva. Non nascondo che il solo pensarci mi commuove e mi affascina. Come avrei voluto anch’io sentire quella voce, incrociare il suo sguardo, essere lì insieme a quelle persone che si mangiavano Gesù con gli occhi e con il cuore.

Nella seconda scena avviene l’imponderabile. Un gruppo di quattro persone prova a portargli davanti un paralitico, ma non ci riesce, non si può passare, è tutto ostruito. Allora arriva il colpo di genio: pensano bene di scoperchiare il tetto e calare la barella con il paralitico dall'alto proprio davanti dove si trovava Gesù. E’ una trovata incredibile per noi, ma allora era possibile, perché in Palestina il tetto della case era quasi sempre a terrazza: vi si potevano accatastare diverse cose utili e quindi era abbastanza comodo accedervi. Spesso sopra le travi portanti, sistemate a distanza l’una dall’altra, si ponevano delle stanghe, a cui si sovrapponevano canne, rami e sterpi. Il tutto veniva ricoperto con uno strato di terra, pressata e indurita. Quindi praticare un foro in questi tetti era abbastanza semplice (descrizione riportata dal Commento alla Bibbia Cei). Gesù non si scompone, anche qui non si tira indietro, perché vede la loro fede, percepisce che tutta quella fatica aveva dietro di se l’abbandono e la fiducia totale nella Sua persona (la fede non è proprio questo?) e dice al paralitico «Figliolo, i tuoi peccati ti sono perdonati». Attenzione che non dice “Figliolo, il tuo male fisico è guarito”, ma “Figliolo, i tuoi peccati ti sono perdonati”. Proprio qui ci imbattiamo nella pietra d’inciampo ed entriamo nella scena successiva. 

Gli scribi presenti, li possiamo immaginare, corrugano la fronte, si incupiscono, non parlano ma è come se le parole uscissero involontariamente dalla loro bocca:  “Perché costui parla in questa maniera? Egli bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non uno solo, cioè Dio?”. 

“Egli bestemmia” è proprio l’accusa che gli rivolgerà il sommo sacerdote, durante il processo nel sinedrio, quando Gesù alla domanda “Sei tu il Cristo, il Figlio del benedetto?” risponde  “Io lo sono”. E’ l’accusa che gli costerà la crocifissione: dire “Io lo sono” significa richiamare la risposta che  Dio diede a Mosè sul Sinai quando gli chiedeva “chi devo dire che mi manda?”. 

“Io, lo sono”, quindi Io posso anche perdonare i peccati, una cosa insopportabile per il pensiero ricavato dalla interpretazione della Torah per la quale solo Dio, solo il Benedetto, poteva perdonare i peccati, nessun uomo poteva farlo al posto Suo. Una cosa gravissima, meritevole di morte.

Ma Gesù è davvero il Figlio di Dio e può davvero perdonare i peccati, e stana subito il pensiero degli scribi, dimostra loro la natura reale della Sua autorità. Qui entriamo nell’ultima scena.

Secondo una modalità tipicamente rabbinica, Gesù risponde alla malcelata insinuazione degli scribi, con un’altra domanda:  

“Che cosa è più facile, dire al paralitico: "I tuoi peccati ti sono perdonati", oppure dirgli: "Àlzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”?

E nello stupore di tutti guarisce il paralitico anche dal suo male fisico, “sicché tutti si stupivano e glorificavano Dio, dicendo: «Una cosa così non l'abbiamo mai vista».

Cosa ha fatto Gesù?

La prima cosa che opera Gesù è la remissione dal peccato, è questo che ha più a cuore, quello per cui si è incarnato. Soltanto di fronte al retro pensiero degli scribi Gesù li sfida anche sul lato della guarigione fisica del paralitico. Gesù, in prima battuta, opera la “cura” del paralitico, il vero risanamento della sua persona attraverso il perdono dei peccati. Solo dopo guarisce la persona che ha davanti dalla malattia fisica. Lo fa per affermare la sua autorità, per dimostrare che la sua Parola può dispiegare i suoi benefici su ogni tipo di infermità, tanto su quella generata dal peccato degli uomini quanto su quella del corpo, la sua Parola risana la persona integralmente.

Gesù poi distrugge il collegamento tra peccato e malattia. Libera l’uomo, la donna, in una parola l’umanità sofferente che ha davanti, tutte e tutti noi dal senso di colpa.

E’ il peccato che interrompe la relazione tra l’uomo e il Signore, non la malattia.

Il termine ebraico per definire il peccato è “hatà” che significa “fallire il bersaglio”.

Falliamo il bersaglio quando la nostra freccia cade prima, non raggiunge il suo centro. Il centro del nostro bersaglio è proprio l’amore di Dio, la nostra relazione con Lui. Fallire bersaglio significa non iniziare questa relazione oppure interromperla compromettendo pure la nostra relazione con gli altri e le altre e quella con la creazione che ci circonda.

Gesù, attraverso il perdono dei peccati, ristabilisce questa relazione, lo fa anche con Matteo al banco delle imposte, con Zaccheo che si arrampica sul sicomoro per poterlo vedere, con chiunque incontra sulla sua strada. Lo fa senza però imporre niente a nessuno e nessuna, lasciando ognuno e ognuna nella propria libertà. Proprio per questo qualche volta va incontro al fallimento, alla incredulità, alle resistenze, ai dubbi dei suoi interlocutori.  

Quanta differenza tra le folle che Lo inseguono dei passi che stiamo commentando e la solitudine della Sua morte sulla croce.

La Sua azione è, comunque, incessante, non conosce sosta. Gesù, come abbiamo visto prima, “purifica”, perdona dal peccato, cura la persona nella sua dimensione relazionale di essere umano e nel suo rapporto con il Signore.

Purificare, curare hanno una valenza più grande, un significato più ampio del guarire. In loro è insita la liberazione, l’affrancamento dalle catene del male. La persona può essere pure guarita fisicamente, ma non ristabilita nella sua integrità morale. Se non è purificata, curata, resta imprigionata nei propri egoismi, nel proprio odio, nella durezza del proprio cuore, nelle proprie guerre private e pubbliche e quindi nella lontananza da Dio e dagli altri e dalle altre.

Gesù ci viene incontro prima, il Suo amore ci precede e ci chiama ad andare verso di Lui che è il nostro bersaglio. Però questo bersaglio possiamo raggiungerlo solo se abbiamo fede.

Il riconoscimento della “fede” è il prerequisito per cui Gesù può operare. Tutti i segni di Gesù, come sono definiti nell’evangelo di Giovanni, sono frutto della fede delle persone che incontra. Senza la fede Gesù, possiamo dirlo, è impotente. 

A Nazaret, di fronte all’incredulità dei suoi concittadini, non ha potuto compiere alcun prodigio, se non imporre le mani a pochi malati che guarì, così leggiamo in Marco 6,5.

La fede è, quindi, la Via di collegamento tra noi e Lui.

La Via è proprio il termine con la quale i primi cristiani e le prime cristiane designavano la sequela di Gesù.

Noi non crediamo in astratte dottrine o filosofie, noi crediamo in Lui, nel Suo potere di amore, di cura, di misericordia e anche di giustizia. 

La fede in Gesù ci restituisce poi la capacità di operare a nostra volta allo stesso modo, con amore, con cura, con misericordia e anche con giustizia nei riguardi degli altri e delle altre, di volere bene a tutto il creato. 

La fede in Gesù è proprio ciò che ci purifica.

In Luca 18,8, però, al termine della parabola della vedova e del giudice, Gesù chiede: “Ma quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?”

Care sorelle, cari fratelli, dipenderà dalla risposta di ognuna e ognuno di noi. Amen

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