(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 22 maggio 2022)
Per questa 5^ domenica dopo Pasqua - Rogate (Pregate!), il lezionario “Un giorno, una Parola" suggerisce per la predicazione il testo di Luca 11,1-13.
Care sorelle, cari fratelli,
In questo passo del vangelo di Luca ci troviamo di fronte alla nostra preghiera, si proprio a quella che possiamo definire la preghiera per antonomasia dei cristiani e delle cristiane: il Padre Nostro. Una preghiera che recitiamo in ogni nostro culto, ma anche nella nostra quotidianità. Magari, talvolta, ci capita di pronunciarla distrattamente, senza dare il giusto peso alle parole che escono dalla nostra bocca, ma questo non ci deve scoraggiare, perché il Signore gradisce sempre quando lo cerchiamo con cuore sincero per consentirgli di entrare nelle nostre vite, come vedremo anche nell’ultima parte di questa riflessione.
Il Padre Nostro contiene le invocazioni che sintetizzano quale dovrebbe essere il nostro modo di porci davanti al Signore e cioè con l’animo umile, aperti e fiduciosi ad una Sua risposta che non ci lasci soli e sole nelle nostre esistenze.
Nei Vangeli ci sono due versioni del Padre Nostro. Quella di Matteo e quella di Luca.
La versione “Lucana” del Padre Nostro è più breve di quella che il vangelo di Matteo riporta nel capitolo 6 ai versetti da 9 a 13, che è quella che conosciamo meglio e che recitiamo abitualmente. Il vangelo di Luca riporta 5 invocazioni a differenza di quello di Matteo che ne riporta 7, e sono:
- padre, sia santificato il tuo nome;
2. venga il tuo regno;
3. dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano;
4. perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore;
5. non ci esporre alla tentazione.
Facciamo subito un breve passo indietro. Al versetto 1 del nostro testo Luca ci informa che Gesù si trovava in un certo luogo a pregare e uno dei suoi discepoli gli chiese: “insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Gesù dunque, e lo sappiamo benissimo, pregava sempre. Potremmo anche dire che tutta la Sua vita è stata una preghiera, rivolta sia al Padre che agli uomini e alle donne che incontrava. La Sua stessa relazione con il Padre era fondata sulla preghiera assidua e quel discepolo, magari desideroso di imitarlo e di ottenerne la forza, chiede a nome di tutti gli altri di imparare a pregare.
Come fare? Con quali parole rivolgersi al Signore? Quel discepolo chiede a Gesù dei lumi, un’ispirazione.
Il testo non ci dice con quali parole Gesù si era rivolto al Signore nella sua preghiera prima della richiesta del discepolo, né quali erano le preghiere del gruppo di Giovanni, ma possiamo essere certi che conosceva benissimo le preghiere che il suo popolo, il popolo della Torah, innalzava al Dio benedetto e sicuramene conosceva la preghiera ebraica del Qaddish (che significa “Santo”) e delle diciotto benedizioni. Il Qaddish inizia proprio così: “Sia magnificato il suo santo Nome nel mondo che egli ha creato secondo la Sua volontà; venga il suo regno durante la nostra vita e ai nostri giorni e durante la vita di tutta la casa d’Israele fra breve e nel nostro prossimo”. Quindi, Gesù, con il suo insegnamento, non si mette fuori dalle tradizioni ebraiche, però le innova, le semplifica per dare maggiore essenzialità e perciò più forza alle sue parole. Proprio per questo, nel corrispondente Vangelo di Matteo, Gesù raccomanda la discrezione, quasi la solitudine, nella preghiera e di non usare troppe parole, perché il Signore conosce il nostro cuore e ciò di cui abbiamo bisogno.
Ma ora vorrei, per sommi capi, concentrare la nostra attenzione sulla quinta domanda del Padre Nostro di Luca, la sesta per Matteo, forse la più intrigante: “non ci esporre alla tentazione”.
Sulle parole di questa invocazione è stato scritto tanto, sono state cambiate persino le traduzioni, sicuramente con lo scopo comprensibile di adattarle alla nostra mentalità: Dio può indurci in tentazione, può esporci alla prova? Sono domande importanti alle quali non possiamo sfuggire se non al prezzo di addolcire la nostra fede.
Anzitutto diciamo che tentazione e prova, in italiano, sono dei sinonimi. Se ripercorriamo i testi dell’antico testamento la prima tentazione la troviamo in Genesi 22,1-2. Così è scritto: “dopo queste cose, Dio mise alla prova Abraamo e gli disse “Abraamo!” Egli rispose “Eccomi”. E Dio disse: prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami, Isacco, e và nel paese di Moira, e offrilo là in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò”. E’ la storia del cosiddetto Sacrificio di Isacco o meglio della “Legatura di Isacco”, perché ne conosciamo l’esito e sappiamo che non c’è stato alcun sacrificio. In Esodo 20,20 “Mosè disse al popolo: non temete, Dio è venuto per mettervi alla prova, perché ci sia in voi il timore di Dio, e così non pecchiate”. Nel libro di Giobbe il satana (l’accusatore) chiede al Signore di mettere alla prova il suo servo Giobbe, per verificarne la fedeltà. Qui il satana non è inteso come lo comprendiamo noi adesso, come immagine del maligno, ma è ancora un dignitario della corte divina e il suo nome ne designa la funzione. Egli è incaricato di accusare gli uomini come funzionario alle dipendenze di Dio e, infatti, prova la fede di Giobbe, che però rimarrà fedele, con il pieno assenso divino.
In 2 Samuele 24 “Il Signore si accese di nuovo d’ira contro Israele e incitò Davide contro il popolo dicendo: “Va e fà il censimento d’Israele e di Giuda”.
Quindi, nell’Antico testamento l’idea di un Dio che tenti e provi l’uomo è presente, come anche quella dell’uomo che tenta Dio. In Esodo 17,1-7 Israele contesta, nelle parole di Mosè “tenta”, il Signore perché non c’era acqua da bere nel deserto.
Nel Nuovo Testamento questa idea non è più ripresa, e solo la lettera di Giacomo, che è stata accolta nel canone in epoca tardiva alla fine del IV secolo, esclude categoricamente che una tentazione possa provenire da Dio. Infatti in Giacomo 1,13 è scritto “Nessuno, quando è tentato dica: Sono tentato da Dio, perché Dio non può essere tentato dal male, ed egli stesso non tenta nessuno”. Però lo stesso Giacomo non considera la tentazione/prova in modo assolutamente negativo. In Giacomo 1, 2-4 è scritto: “Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate, sapendo che la vostra fede produce costanza. E la costanza compia pienamente l’opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.” E sempre in Giacomo 1,12 troviamo: “Beato l’uomo che sopporta la prova; perché dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano”.
In questo gioco di andare indietro e avanti nel tempo, è poi davvero interessante il testo di una benedizione serale che i pii ebrei recitavano anche ai tempi di Gesù. Vi troviamo scritto: “Sia la tua volontà di abituarmi al precetto e di non abituarmi alla trasgressione; di non espormi al peccato, né all’iniquità, né alla tentazione, né all’infamia”. Probabilmente queste sono le parole che più si avvicinano al senso dell’invocazione “Non ci esporre alla tentazione”.
Come possiamo provare allora ad intendere meglio questa invocazione? Qual è la postura con la quale porci dignitosamente davanti al Signore?
Cosa dobbiamo chiedere al Padre? Di non essere tentati? Di tenerci alla larga da qualsiasi fastidio? Di avere una fede del bel tempo, quando va tutto bene? Se il Padre ci assicurasse tutto ciò sarebbe sin troppo facile. Ricordate la famosa pubblicità: vuoi vincere facile? Chi ha fede in Gesù non vuole però vincere facile, perchè è stato riscattato a caro prezzo. La grazia donataci non è una grazia a buon mercato (come ci ha spiegato Bonhoeffer). Prima della gloria c’è la croce. Al Padre dobbiamo piuttosto chiedere che ci dia la forza di superare le prove e le tentazioni, di non farci sopraffare, di non spegnere la luce della nostra speranza. E’ proprio nel momento della prova che la nostra fede è vagliata, la fede resta in piedi se, nonostante i dubbi e le afflizioni, ci rifugiamo nel Signore per chiedergli aiuto, per supplicarlo a non abbandonarci. Nel momento della difficoltà rimane forte il nostro legame con il Padre perché solo in Lui possiamo confidare. Gesù stesso pregò “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice”, se è possibile dice Gesù: tuttavia la sua fede rimase integra proprio come quella di Giobbe.
Prima di concludere, l’ultimo passaggio vorrei farlo sulla seconda pericope del nostro testo, quella che va dal versetto 5 al 13. Possiamo scorgere un aiuto per capire perchè valga la pena di non smettere mai di pregare. In questi versetti, una specie di parabola, vi leggiamo la riluttanza del padrone di casa ad aprire la porta per esaudire la richiesta del suo amico che gli chiedeva di prestargli tre pani: “Non darmi fastidio; la porta è già chiusa e miei bambini sono con me a letto, io non posso alzarmi per darteli”. Per entrare nel testo e percepire meglio cosa Gesù volesse dire, ci può essere utile avere un’idea di come fossero strutturate le umili abitazioni palestinesi ai tempi di Gesù. Una di queste tipiche abitazioni comprendeva la “Katalima”. Era un locale dove era riunita tutta la famiglia, in pratica la stanza che si trovava immediatamente dopo l’ingresso della grotta dove le persone vivevano. In questa stanza si coabitava in modo promiscuo. Nella stanza successiva c’era poi il ricovero degli animali. Quindi, dobbiamo immaginarci lo scompiglio che avrebbe potuto provocare nel padrone di casa e nella sua famiglia quella spropositata richiesta giunta a mezzanotte. Tutti erano al loro solito posto, nel loro giaciglio, sicuramente dormivano, bastava che si alzasse una persona perché tutte le altre ne fossero coinvolte e poi mezzanotte era davvero il cuore della notte. La risposta di rifiuto può essere perciò facilmente compresa. Ma Gesù ci sorprende sempre, ci offre una Parola ancora una volta inaspettata: “Io vi dico che se anche non si alzasse a darglieli perché gli è amico, tuttavia, per la sua importunità, si alzerà e gli darà tutto ciò di cui ha bisogno”. Importuniamo quindi il Padre celeste, non abbiamo paura di “scocciarlo” perché, al contrario di noi che siamo malvagi, è un Padre buono che ci darà il necessario.
Ma giunti al termine di questo percorso è lecito chiederci: quindi Dio, se insistiamo, ci può dare tutto? Il Padre è come un bancomat, un Dio tappabuchi, come direbbe ancora Bonhoeffer, al quale possiamo chiedere tutto ciò che non riusciamo a procuraci da soli? E come funziona quando le nostre preghiere restano non esaudite? Gesù, però ci mette in guardia e ci dice che non è così, perchè il Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono. Si, proprio lo Spirito Santo, lo Spirito che ci sosterrà nelle nostre tentazioni, che ci terrà in piedi quando smarriamo la fiducia, che ci consolerà quando ci sembrerà che tutta la nostra fede sia diventata vana, che ci difenderà dall’assedio del male. Lo Spirito Santo è davvero la cosa più bella e preziosa che il Padre celeste ci potrà dare ed anche è tutto ciò che ci è necessario. Amen!