(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 15 gennaio 2023)
Il lezionario “Un giorno, una parola”, ci propone come testo per la riflessione di questa 2^ domenica dopo l’Epifania un passo tratto dal Libro dell’Esodo, capitolo 33, versetti da 18 a 23.
Care sorelle, cari fratelli,
Il brano che abbiamo di fronte, questa domenica, contiene 6 versetti di una densità spirituale e teologica altissima. Ci innalzano verso livelli sublimi della fede e allo stesso tempo ci pongono davanti a questioni davvero fondamentali.
Vorrei porre subito alla vostra attenzione un interrogativo importante, che riguarda i versetti da 21 a 23, che poi riprenderemo:
21 E il SIGNORE disse: «Ecco qui un luogo vicino a me; tu starai su quel masso; 22 mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; 23 poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere».
Stiamo davanti a un Dio che gioca con Mosè e con gli uomini a nascondino.
Così, dopo una lettura superficiale, potremmo commentare il passo biblico appena condiviso. Probabilmente ognuno di noi, qualche volta nel corso della propria vita, ha sperimentato una condizione di incertezza, quasi di dubbio, di fronte a un Dio che sembra apparire, poi scomparire improvvisamente e non farsi “vedere”, non farci avvertire la sua presenza per tanto tempo, lasciandoci con tante domande aperte e irrisolte.
Ma è proprio così, siamo al cospetto di un Dio burlone, di un Dio che si fa beffe di noi?
Lo vedremo, ma intanto dobbiamo contestualizzare ciò che abbiamo letto. Ci troviamo in un preciso punto della storia della salvezza del popolo d’Israele, un momento drammatico, decisivo. Mosè era sceso dal Sinai con le Tavole della Legge, con le dieci parole che il Signore gli aveva affidato perché il popolo seguisse le sue vie e non sbandasse. Ma Israele non aveva avuto pazienza, aveva perso la fiducia e si era fatto un vitello d’oro da adorare al posto di Yhwh, un idolo che si ponesse alla sua testa.
“Il popolo vide che Mosè tardava a scendere dal monte; allora si radunò intorno ad Aaronne e gli disse: «Facci un dio che vada davanti a noi; poiché quel Mosè, l'uomo che ci ha fatti uscire dal paese d'Egitto, non sappiamo che fine abbia fatto». 2 E Aaronne rispose loro: «Staccate gli anelli d'oro che sono agli orecchi delle vostre mogli, dei vostri figli e delle vostre figlie, e portatemeli». 3 E tutto il popolo si staccò dagli orecchi gli anelli d'oro e li portò ad Aaronne. 4 Egli li prese dalle loro mani e, dopo aver cesellato lo stampo, ne fece un vitello di metallo fuso. E quelli dissero: «O Israele, questo è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto!» 5 Quando Aaronne vide questo, costruì un altare davanti al vitello ed esclamò: «Domani sarà festa in onore del SIGNORE!» 6 L'indomani, si alzarono di buon'ora, offrirono olocausti e portarono dei sacrifici di ringraziamento; il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per divertirsi” (Esodo 32,1-6).
Dio sul monte aveva avvisato Mosè di quello che stava succedendo e aveva minacciato di scatenare la propria ira contro il popolo, riconoscendo però l’integrità di Mosè e promettendogli di farlo diventare una grande nazione. Ma Mosè, con grande umiltà e rinunciando al proprio privilegio, pregò il Signore perché rinunciasse alla vendetta e Dio si pentì subito del male che aveva minacciato.
Annotiamo anche queste parole Dio “si penti subito”: è un altro aspetto che riprenderemo pure tra poco.
Mosè, quindi, scese dal monte all’accampamento, vide quello che il Signore gli aveva già descritto e distrusse tanto le Tavole della legge quanto il vitello d’oro.
E’ un momento di crisi terribile, la rottura delle Tavole della Legge e la riduzione in polvere del vitello d’oro ha un significato che va ben oltre l’aspetto materiale, significa anche una prima rottura dell’amicizia con Dio, un’infedeltà che poi, qualche secolo dopo, sfocerà nell’idolatria diffusa, nell’allontanamento del popolo dal Signore, nella distruzione del Tempio di Gerusalemme e nella deportazione a Babilonia.
Ci verrebbe da dire: che scellerati, Dio li ha tratti dalla schiavitù dell’Egitto e alla prima occasione gli si sono rivoltati contro. Qui faccio un breve inciso, per osservare semplicemente che questa infedeltà non riguarda solo il popolo d’Israele ma ci coglie da vicino con le mani nella marmellata. In mezzo a quel popolo che faceva festa davanti ad un idolo muto, sordo e cieco ci siamo anche noi che talvolta ci illudiamo e ci trastulliamo con gli idoli delle nostre vite. Non dimentichiamo che la confessione di peccato della nostra liturgia serve proprio a fare memoria di tutte le volte che ci siamo resi nemici non solo nei confronti di Dio ma anche del nostro prossimo.
Come nell’annuncio del perdono che segue la confessione dei peccati, Dio però ricuce, dice a Mosè di riferire agli Israeliti che, si sono un popolo di dura cervice, ma non li abbandona. Nonostante tutto sta lì, a dispetto dell’altrui infedeltà Lui si mantiene fedele e, proprio all’inizio del capitolo 33 del libro dell’Esodo, ordina a Mosè di partire verso la terra promessa, la terra dove scorrono latte e miele.
Ma Mosè, lo possiamo leggere nei versetti che vanno da 12 a 16 dello stesso capitolo 33, vuole essere rassicurato dal Signore circa la Sua presenza durante il viaggio, sa benissimo che senza la presenza e l’aiuto di Dio tutto sarebbe destinato ad un misero fallimento. Si rivolge al Signore con una preghiera bellissima: “Se il tuo volto non camminerà con noi, non farci salire da qui. Come si saprà che ho trovato grazia ai tuoi occhi, io e il tuo popolo, se non nel fatto che tu cammini con noi?”
Dio lo rassicura una prima volta, ma Mosè preso ancora dalla paura di restare solo, gli fa una domanda esplicita: “Ti prego fammi vedere la tua Gloria!”.
Ci dice tanto questo dialogo tra Mosè e il Signore. Dio non fa il permaloso, non prende le richieste di Mosè come una mancanza di fiducia, ma risponde: “Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà, proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te; farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò pietà di chi vorrò avere pietà».
Con queste parole Dio comunica a Mosè, e anche a noi, quali sono gli attributi, le caratteristiche della sua divinità.
La sua gloria contiene ed esprime bontà, grazia e pietà (cioè misericordia). E’ anche un Dio che cammina davanti al popolo.
Bontà, grazia, misericordia sono attributi che derivano proprio dal fatto che il Dio biblico è un Dio che si è rivelato agli uomini, altrimenti che senso avrebbero? Un Dio autoreferenziale, rivolto solo verso se stesso, non potrebbe godere di queste tre facoltà. Che se ne farebbe?
La bontà è già nel desiderio e nell’immaginazione di Dio nel tempo della creazione. Alla fine della quale, dopo avere creato l’uomo a sua immagine, dopo averlo creato maschio e femmina, Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono.
La bontà poi anticipa ogni azione di Dio, perché Lui ha fiducia nelle sue creature, anche se spesso non la meritiamo. Se la bontà non anticipasse l’agire di Dio saremmo circondati dalla disperazione e dalla tristezza. Grazie all’anticipo della sua bontà, possiamo essere sicuri che, se gli saremo fedeli, la misura della sua bontà si allargherà a dismisura sulle nostre persone e sulle nostre storie.
Dio è però consapevole delle nostre fragilità e allora ci circonda con la sua grazia. E’ una grazia infinita, che non ha confini, né limiti. Senza questa grazia ci ritroveremmo angustiati, perduti nei nostri fallimenti, impossibilitati a ristabilire ogni volta il nostro rapporto con Dio, con le nostre sorelle e con i nostri fratelli. La grazia ci da il respiro di cui abbiamo bisogno per uscire dalla nostra condizione naturale di schiavitù dal peccato. L’uscita di Israele dalla schiavitù dell’Egitto è esemplificativa. Dio vide, si piegò sulle sofferenze di Israele, prese l’iniziativa per liberarlo. La grazia è appunto l’iniziativa libera di Dio che guarda alla nostra misera condizione, non resta indifferente perché sa che senza di lui non ce la potremmo mai fare, si commuove e ci offre qualcosa che, gratuitamente, ci reintegra non solo nella nostra vita con lui, ma ci crea e ci ricrea come umanità nuova. Lui sa perfettamente che torneremo a peccare, sa anche però che sarà altrettanto pronto a darci nuovamente la medicina della grazia.
La grazia va però accolta, perché ci consente di ottenere misericordia. Se Dio ci circonda con la sua immensa grazia, ma noi restiamo indifferenti, la rifiutiamo, ci giriamo dall’altra parte, che cosa ne potremmo ricavare? Dio è uno “sprecone” della grazia, non si risparmia alcun tentativo per avvicinarsi a noi, ma se noi manteniamo le distanze, non ci facciamo coinvolgere nel suo “spreco”, rifiutando o rimandando sempre a domani l’incontro con Lui, cosa ne sarà della prodigalità del Signore. Rimarremmo nella nostra sterilità, nella nostra incapacità di leggere i segnali che Dio ci manda, sprecheremmo il suo bene.
Quando invece accogliamo la sua grazia, riceviamo anche la sua misericordia, il suo perdono. Non è un perdono che ci lascia la dove siamo, fermi e immobili nelle nostre certezze, nelle nostre abitudini consolidate, ma è un perdono attivo, un perdono che ci rilancia nella nostra vita di tutti i giorni, ci consola nelle difficoltà, ci consente di riscoprirci nella gioia e di essere pronti a correre la gara della vita come ha scritto Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Una gara in cui vince non il più forte, ma paradossalmente il più debole, chi rinuncia al proprio orgoglio, chi si fa prossimo per gli altri e le altre, chi a sua volta diventa misericordioso come Dio lo è stato con lei e con lui. Insomma, grazia e misericordia camminano a braccetto, ma dipende solo da noi.
Nella seconda parte del versetto 19 del capitolo 33, Dio poi dice: “farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò pietà di chi vorrò avere pietà”. Questa espressione è un altro bel punto interrogativo: cosa vuol dire, che ci troviamo di fronte a un Dio che usa le sue prerogative in maniera arbitraria? La risposta è no, ma non è una risposta preconfezionata o stereotipata, è una risposta che trova il suo fondamento proprio nella relazione tra Dio e gli uomini che è fondata sulla libertà reciproca. Dio ci fa grazia, ci offre la sua misericordia, ma dipende sempre da noi perché Dio non ritira per suo capriccio ciò che ci dona, ma ci lascia nella nostra dimensione di uomini e donne liberi e libere, abbiamo sempre la possibilità di dire di no. Dio non ci costringe ad accettare i suoi benefici, siamo liberi di rifiutarli. L’accoglienza, come il rifiuto, è lasciata alla nostra responsabilità e all’esercizio della nostra responsabilità, nella libertà, consegue sempre l’assunzione delle conseguenze che ne possono derivare.
Dio amministra con assoluta libertà i suoi doni e noi siamo liberi di accettarli o meno, sapendo benissimo che non accoglierli significa allontanarci dalla sua relazione, chiuderci nelle nostre solitudini e anche nelle nostre angosce. Accoglierli, invece, è proprio come respirare, uscire dalle nostre claustrofobie per vedere la luce del Suo Nome riscaldandoci al calore del suo amore e allargare questa luce e questo amore a tutte le persone che ci stanno vicine e nello stesso tempo avere uno sguardo aperto alle vicissitudini del mondo, ai problemi delle nostre sorelle e dei nostri fratelli, anche lontane e lontani, che sono nella sofferenza e per i quali possiamo quanto meno pregare, adempiendo anche il comando evangelico di farlo pure per i nostri nemici.
Dio cammina poi davanti al popolo, cammina davanti a noi. E quali sono le modalità di questo cammino? Sono proprio la sua bontà, la sua grazia, la sua misericordia: Se abbiamo fiducia in lui, Dio ci precede, non ci lascia soli. Questo non vuol dire che tutto quello che chiederemo ci sarà concesso e che in tutto quello che faremo avremo successo. Significa invece che Dio è sempre con noi nella gioia come nella sofferenza. Abbiamo un Padre che non si dimentica della nostra condizione. Possiamo sempre rivolgerci a lui sicuri che ci darà il suo Spirito che ci fortifica. Facciamo bene a fidarci di Dio, a riporre in lui tutto il nostro essere, tutti i nostri desideri, tutto ciò che siamo. Dio ci innesca una marcia in più, quella marcia in più che dirige il nostro cammino verso una meta di salvezza non solo eterna, ma anche di liberazione qui su questa terra dove possiamo sperimentare delusioni, sofferenze, manchevolezze però possiamo essere sempre sicuri che il Signore è la nostra roccia che non ci abbandonerà mai e anche nell’ultimo respiro ci prenderà per la mano per condurci a se.
Ma, come abbiamo potuto notare prima, Dio è capace anche di pentirsi, è disponibile a tornare sui suoi passi, a cambiare idea quando ci si rivolge a lui con animo puro e con sentimenti integri. Quello del pentimento è un elemento poco esplorato della “personalità” di Dio, ma è ben presente in Lui. Diversi passi della Bibbia ce lo confermano. Solo per fare qualche esempio, oltre all’episodio di cui abbiamo già accennato, Dio non fa morire l’uomo dopo la trasgressione nel giardino dell’Eden, Dio si pente dopo il diluvio. Non è quindi un Dio inaccessibile, ma un Dio che si fa trovare, con il quale si può parlare, perché è un Dio di relazione. Questa relazione deriva dalla rivelazione. Come dicevamo, il Dio biblico è un Dio che si è rivelato, che non ha aspettato l’uomo per farsi conoscere, ma ha fatto sempre il primo passo. Anche quando dal pruno ardente si rivolge a Mosè, che non lo conosceva, gli dice: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe» poi aggiunge “«Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d’Israele».
Possiamo, quindi, senz’altro dire che l’uomo ha bisogno di Dio, ma anche Dio ha bisogno degli uomini. Non è un Dio solitario, poteva benissimo starsene da solo essendo autosufficiente, ma ha creato l’universo, ci ha creato proprio perché desidera stare con noi, vuole la nostra compagnia.
Siamo adesso finalmente giunti, dunque, all’interrogativo paradossale dal quale siamo partiti: siamo di fronte a un Dio che gioca a nascondino?
Si, perché ai versetti da 20 a 23 del nostro testo, che ripercorriamo, troviamo: 20 Disse (il Signore) ancora: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché l'uomo non può vedermi e vivere». 21 E il SIGNORE disse: «Ecco qui un luogo vicino a me; tu starai su quel masso; 22 mentre passerà la mia gloria, io ti metterò in una buca del masso, e ti coprirò con la mia mano finché io sia passato; 23 poi ritirerò la mano e mi vedrai da dietro; ma il mio volto non si può vedere».
Troviamo qui ancora l’eco anche di Esodo 3,5-6, quando Dio, dopo aver attirato Mosè al pruno in fiamme, lo chiamò per nome e poi gli disse «Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è suolo sacro». 6 Poi aggiunse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe». Mosè allora si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio”.
Siamo di fronte a due “teofanie”, ossia a due manifestazioni di Dio, che hanno la stessa base comune: Mosè non può guardare in faccia Dio, perché morirebbe.
Dio ha sempre accompagnato il suo popolo, ha parlato con i suoi profeti, senza farsi mai vedere in faccia, ossia senza mai manifestarsi integralmente. Perché?
Perché la rivelazione di Dio contiene entrambi gli elementi dello svelamento e del nascondimento. Dio si rivela agli uomini, ma la sua rivelazione non lo può contenere. Gli uomini non sarebbero in grado di reggere alla sua gloria, alla sua bellezza, a tutta la sua grandezza. Siamo al cospetto di un Dio che ci chiede semplicemente di affidarci. Non siamo in grado di cogliere tutti gli aspetti della sua “personalità”. Dio è immensamente più grande di noi, lui è il creatore e noi siamo sue creature.
In Isaia 45,15, troviamo: “In verità, tu sei un Dio che ti nascondi, o Dio d’Israele, o Salvatore!”.
In Isaia 55, 8-9 leggiamo: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.”
La limitatezza della nostra condizione umana non è in nessun modo in grado di cogliere la profondità della dimensione divina.
Non è quindi un Dio che gioca a nascondino, ma un Dio che ci riserva la pienezza della sua conoscenza quando saremo nel suo regno, quando vedremo tutto per quello che è, senza ombre o opacità.
E’ una promessa di eternità di fronte alla quale non dobbiamo opporre il nostro orgoglio umano, come fecero i nostri progenitori ai primordi della storia nel giardino dell’Eden. Siamo chiamati, se crediamo, ad accettare questa condizione di dipendenza dal Signore senza avere la pretesa mortifera di farci come lui.
D’altro lato Gesù ci ha rivelato il vero volto del Signore che è quello dell’amore. Il Cristo ci ha mostrato un anticipo della nostra felicità e di come sarà il nostro riposo nel Padre. Questo anticipo lo possiamo già vivere qui su questa terra, in attesa del suo ritorno quando gusteremo la felicità in maniera piena.
Quando ci sembra che Dio si allontana da noi, che ci trascura, che è silenzioso nei nostri confronti e in quelli del mondo, Lui invece, in realtà, c’è. Siamo noi che dobbiamo avere pazienza, non facendoci vitelli d’oro ma confidando sempre in Lui e restando fermi e fedeli nella sua bontà, grazia e misericordia. Dio c’è sempre, piuttosto è l’uomo che spesso sparisce. Sorelle e Fratelli, coraggio dunque, riponiamo in Lui tutto ciò che siamo, ogni nostro affanno, ogni nostra gioia, ogni nostra speranza. Camminiamo con il Signore proprio come fecero Noè e Mose. Amen