(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 21 maggio 2023)

Il lezionario “Un giorno, una Parola”, ci propone per la predicazione di questa 6^ domenica dopo Pasqua - Exaudi (O Signore ascolta la mia voce - Salmo 27,7) un brano tratto dal 1° Libro di Samuele, precisamente I Samuele 3,1-10.

Care sorelle e cari fratelli, 

Il testo che abbiamo appena letto è un tipico racconto di vocazione, ci descrive la chiamata e, quindi, l’inizio della missione di Samuele, profeta e giudice d’Israele. 

Il suo ruolo assume un’importanza assoluta per la storia d’Israele, infatti è lui che unge il primo re nella persona di Saul e poi il suo successore il re David al quale si richiameranno tante speranze messianiche e che è considerato il modello di re per eccellenza, anche se si macchierà di molto sangue e per questo il Signore non gli consentirà di costruirgli il Tempio di Gerusalemme.

Il re David fu modello di fede ma anche di imperfezione. Ci torneremo.

Ma chi era Samuele? Per scoprirlo dobbiamo scorrere il primo capitolo di I Samuele. 

Prima però annotiamoci due cose importanti del versetto 1 del nostro testo, che riprenderemo pure dopo: 

“La parola del SIGNORE era rara a quei tempi, e le visioni non erano frequenti”. 

Samuele era figlio di Elcana e Anna. All’inizio di I Samuele ci viene detto che Elcana aveva due mogli, Peninna e Anna. Nonostante la sua sterilità, Elcana amava Anna.

Ci viene subito in mente la storia di Giacobbe e delle sue due mogli, Rachele e Lia. Giacobbe amava Rachele, sebbene quest’ultima fosse pure sterile. 

Come Rachele, Anna troverà il suo riscatto. Sappiamo bene, infatti, che la sterilità era considerata come uno stigma, una maledizione di Dio. Secondo la cultura patriarcale di allora, se una coppia non era in grado di generare figli la “colpa” era sempre della donna, destinata quindi all’emarginazione e talvolta al disprezzo da parte delle rivali. Oggi sappiamo benissimo che l’infertilità può dipendere tanto dal maschio, quanto dalla femmina e, almeno da questo punto di vista, ci troviamo su un piano di pari dignità e rispetto.

Le storie bibliche vivono del riscatto morale e sociale di alcune donne. Ricordiamo Sara, la moglie di Abramo, Rebecca, la moglie di Isacco. Abbiamo già ricordato Rachele, moglie di Giacobbe.

Pennina disprezzava Anna, la umiliava per questa sua condizione. Durante un pellegrinaggio a Silo, Anna pregò così intensamente il Signore, piangendo, che il sacerdote Eli pensò fosse ubriaca. 

Infatti, Anna pregava davanti al Signore non a voce alta o sussurrando come era consueto, ma la forza della sua orazione silenziosa le faceva muovere le labbra. Ecco perché Eli pensava che fosse ubriaca.

Durante quella preghiera Anna promise al Signore che se avesse avuto un figlio maschio lo avrebbe dedicato interamente a Lui: “il rasoio non passerà sul suo capo” (I Samuele 1,11). 

Anna aveva appena promesso di consacrare suo figlio al Signore come nazireo.

Così avvenne, Anna generò Samuele che dopo lo svezzamento fu condotto al servizio del sacerdote Eli al tempio di Silo.

E’ qui che si trovava dunque il piccolo Samuele quando ricevette la chiamata del Signore.

Ma non possiamo proseguire nella nostra meditazione senza attraversare, almeno per un momento, il 2° capitolo di I Samuele il cosiddetto “Cantico di Anna”, innalzato al Signore dopo la nascita di Samuele. E’ un mirabile inno di lode che anticipa quello che sarà il canto del Magnificat di Maria, la madre di Gesù. Come nel Magnificat di Maria, il Cantico di Anna esalta il Signore per la Sua santità, la Sua misericordia e la Sua giustizia. 

Ne ripercorriamo alcuni passaggi: “L’arco dei potenti è spezzato, ma quelli che vacillano sono rivestiti di forza. Quelli che una volta erano sazi si offrono a giornata per il pane, e quanti erano affamati ora anno riposo. La sterile partorisce sette volte, ma la donna che aveva molti figli diventa fiacca. Il Signore fa impoverire e fa arricchire, egli abbassa e innalza. Alza il misero dalla polvere e innalza il povero dal letame, per farli sedere con i nobili, per farli eredi di un trono di gloria; perché le colonne della terra sono del Signore e su queste ha poggiato il mondo”. 

E’ un Canto di liberazione, del riscatto che Dio opera sulle sorti dei suoi figli e delle sue figlie. E’ un Canto meraviglioso di ribaltamento, di avvento del misericordia divina, nel quale il Signore è colui che ha cura del debole che può continuare a vivere nella Sua speranza e nella Sua fiducia.

Ma, nello stesso modo del Magnificat, è anche un Canto di giustizia. Il Signore redime il povero, chi si fa umile ai suoi occhi, ma destina il potente alla polvere. Il prepotente, chi si vanta a scapito del misero, non ha spazio nella visione di Dio ed è lontano dalla Sua presenza.

Fatto questo importante inciso, torniamo ora al nostro brano.

“Dio chiama”: potremmo titolare così il testo di questa domenica. La storia della salvezza è piena di chiamate. Il Signore, dopo averlo creato, e dopo che Adamo ebbe mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male “Dio il Signore chiamò l’uomo e gli disse “Dove sei?”  (Genesi 3,9).

Poi, dopo l’omicidio del fratello Abele, chiamò Caino. “Il Signore disse a Caino: dov’è tuo fratello Abele”?  (Genesi 4,9).

Dobbiamo ammetterlo le prime due chiamate, se ragioniamo con le nostre tipiche forme mentali, rappresentano dei fallimenti di Dio.  

Diremmo, usando una brutta parola che sintetizza una concezione del mondo utilitaristica e parziale, che Dio non è stato performante.

Adamo e poi Caino si erano ribellati al Signore, presi dal loro orgoglio e dal loro desiderio di potenza non lo avevano ascoltato. Proprio due grandi insuccessi. 

All’inizio della storia dell’umanità, al sesto giorno Dio definisce la sua creazione “molto buona”. “Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco era molto buono(Genesi 1,31).    

Un disegno meraviglioso, la più bella opera uscita dalle mani di Dio, ma immediatamente il Signore è stato costretto a fare i conti con le contraddizioni della natura umana, con la sua propensione, non dobbiamo avere paura di dirlo, al male. “Il Signore disse a Caino: perché sei irritato? E perché hai il volto abbattuto? Se agisci male, il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!” (Genesi 4,6-7).

Nel versetto successivo Caino, non riuscendo a dominare il male che aveva dentro di sé, uccide Abele.

Pensiamo solo per un momento alla nostra possibile reazione se fosse stato o stata uno o una di noi al posto di Dio. Ma come io ho fatto un universo così bello, vi ho creato in modo così mirabile, vi ho chiamato a godere della bellezza nella pace con tutti i vostri sensi e voi mi tradite così ignobilmente alle prime occasioni?

Probabilmente avremmo davvero scatenato una vera e propria ira di dio, distruggendo tutto in un attimo.

Ma il Signore, per Sua grazia, non ragiona con gli stessi nostri metri di giudizio. Ha creato la donna e l’uomo per non restare solo, per avere una relazione e allora accetta questi due fallimenti come il prezzo della libertà che ha lasciato a noi umani. Ci ama profondamente, ma ci lascia liberi. Certo le nostre azioni, hanno delle conseguenze, come lo è stato per Adamo e Caino, ma ci lascia il terreno per tornare suoi nostri passi, apre feritoie attraverso le quali guardare e sperare nella redenzione, nella salvezza.

E, infatti, il Signore continua a chiamare e a squarciare orizzonti di vita. Noè, Abramo, Giacobbe, con il quale addirittura Dio lotta, Mosè, i profeti sino ad arrivare a Maria, madre di Gesù, poi ai discepoli e alle discepole di Cristo, infine ad ognuno e ognuna di noi. 

Dio chiama, lo fa nella Sua libertà e nel rispetto di quella del chiamato e della chiamata. Alcuni e alcune hanno risposto Si senza neanche pensarci, altri e altre sono stati e state riluttanti e hanno aderito alla proposta del Signore loro malgrado. Pensiamo solo alla storia del profeta Giona, tanti e tante rifiutano e dicono No.  

Dio chiama e lo fa anche quando tutto sembra spento, quando non c’è altro che silenzio e la Sua Parola sembra venire meno.

“La parola del SIGNORE era rara a quei tempi, e le visioni non erano frequenti”, è scritto nel versetto 1 del nostro testo.

Il tempo di Samuele era un tempo confuso. La presenza di Dio non era percepita, il Signore apparentemente non si manifestava, quanto meno era silenzioso. 

Ma questo silenzio di Dio, non riguarda tutte e tutti noi anche oggi? Poniamoci, con coraggio, questa domanda. Anche il nostro tempo è  il tempo del silenzio di Dio?

Ci troviamo anche noi in una contraddizione, dentro un aporia.

Eppure, il fenomeno religioso è in piena espansione.

Nonostante, anche nei secoli scorsi, grandi filosofi e scienziati abbiano annunciato la fine, o quanto meno, l’esilio di Dio, stiamo tuttavia assistendo ad una rivincita del religioso. 

C’è quasi un’inflazione di religione e di simboli religiosi. Anche se le chiese di tutte le confessioni specialmente in Europa, sono vuote, l’elemento religioso esplode.

Ma questa esplosione può diventare quasi una minaccia, una bestemmia. Molti e molte tirano il loro Dio dalla giacchetta e lo rendono loro condottiero, loro vendicatore e lo brandiscono come un’arma a scapito delle altre e degli altri.

Si, nonostante il gran vociare su Dio, rischiamo di non sentirlo davvero più.

Ma quando non riusciamo più a sentire Dio, quando non riusciamo a scorgerlo nelle nostre vite quotidiane, vuol dire che Dio non c’è, che si è eclissato?

E può Dio, eclissarsi, lasciarci nella tristezza e nell’abbandono?

O, piuttosto, possiamo e dobbiamo dire che Dio abita questo silenzio, che Dio sta nella Parola che ci ha lasciato?

Il nostro tempo, in effetti, non è dissimile da quello di Samuele:

“La parola del SIGNORE era rara a quei tempi, e le visioni non erano frequenti”.

Ma Dio chiama, ci chiama anche quando siamo disorientati, quando siamo talmente attratti e distratti dalle nostre corse e dalle nostre frenesie che ci pare di poterne fare a meno.

Ma è proprio il silenzio di Dio, la mancanza delle sue visioni che è in grado di aprirci spazi di comprensione e di ascolto inimmaginabili, percorribili però se solo abbiamo la forza e la capacità di fermarci un pò, di mettere a tacere il nostro orgoglio, di rinnovare giorno dopo giorno la nostra disponibilità di porci al Suo servizio, di cercare il Signore come come Lui cerca noi con la Sua infinita pazienza.

Già, ma come ci cerca, come ci parla il Signore?

Ci cerca e ci parla proprio come Samuele, con una voce sottile, anche nel sonno, con il soffio del Suo Spirito, come ha fatto pure con il profeta Elia: con “un mormorio di vento leggero” (1 Re 19,12).

Il Signore non ci urla, desidera risvegliare la nostra attenzione, potremmo dire, attraverso il silenzio delle nostre vite. Si, per ascoltare le voce del Signore dobbiamo fare silenzio, un silenzio non ozioso ma che interroga le nostre esistenze giorno dopo giorno.

Così Dio chiama Samuele, nel silenzio della penombra, nella quasi cecità di Eli il sacerdote, senza essere invasivo.

La Sua lampada non è ancora spenta, ci racconta il nostro testo. Quella lampada era il candelabro a sette braccia che veniva acceso la sera all’ora del sacrificio dell’incenso, affinché ardesse tutta la notte davanti al Signore. 

Ma il racconto probabilmente ci vuole dire anche altro. La lampada del Signore rimane accesa, anche nella notte, anche quando le tenebre sembrano prendere il sopravvento.

E Samuele, ancora fanciullo si alza dal suo giaciglio per ben tre volte pensando che fosse Eli a chiamarlo. Samuele, nonostante la sua tenera età, non se ne sta fermo. In quella rarità della Parola del Signore, Samuele è comunque pronto a rispondere alla Sua chiamata.

Ora il testo, al versetto 7, ci dice pure che “Samuele non conosceva ancora il Signore e la Parola del Signore non gli era stata ancora rivelata”. Ma Samuele si alza, percepisce la chiamata perché era in ascolto, in attesa di questa Parola. 

Poi Eli lo aiuta a capire il grande mistero che stava per vivere, e di fronte ad un ulteriore chiamata risponde “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”.

E’ proprio così, la Parola del Signore è sempre un grande mistero e spesso Dio, nonostante il nostro far finta di rimanere sordi, muti e ciechi, ci chiama più volte, non demorde.

Anche Lui ha paradossalmente bisogno di essere rassicurato che abbiamo capito che sta chiamando proprio noi, si proprio ognuno e ognuna di noi carissime sorelle e carissimi fratelli. Ama la nostra libertà, per Lui è la cosa più preziosa.

Una, due, tre volte. Dio è proprio insistente e ci vuole nella nostra originalità, non vuole la copia perfetta di un’altra persona. 

Il Signore non ama la perfezione, ma, passatemi il termine, ama le cose storte perché è lì che può manifestare in pieno la forza del Suo amore.

Proprio come il re Davide.

Proprio come fece Gesù, dopo la resurrezione sul lago di Tiberiade quando chiese, per ben tre volte, a Pietro se lo amasse. Solo dopo il terzo Si, gli disse di pascere le Sue pecorelle. E certo Pietro non era proprio un bell’esempio di perfezione. Addirittura Gesù, immediatamente dopo la confessione di Cesarea di Filippi lo aveva definito un demonio (“Ma Gesù si voltò e, guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro dicendo: «Vattene via da me, Satana! Tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini» (Marco 8,33). Il rinnegamento poi davanti la casa del sommo sacerdote non è stato un episodio onorevole.

Proprio così, Dio ama le nostre imperfezioni, le nostre mancanze perché dentro di esse può raggiungerci la Sua Parola.

Se fossimo perfetti resteremmo chiusi nelle nostre sicurezze, inscalfibili nelle nostre corazze e la Sua Parola non avrebbe alcuno spazio.

Invece Dio ci chiede proprio di farGli spazio, di penetrare nelle nostre viscere più profonde.

Coraggio, allora, sorelle e fratelli apriamo il cuore, la mente e tutti i nostri sensi al Signore, proprio così come siamo, in assoluta umiltà sentendoci cercati e cercate, amati e amate giorno dopo giorno sempre di più. 

Amen

 

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