(Chiesa Valdese di Catanzaro, domenica 16 luglio 2023)
Il lezionario “Un giorno, una Parola”, ci propone per la predicazione di questa 7^ domenica dopo Pentecoste un brano tratto dal libro di Isaia, Isaia 43,1-7
Care sorelle e cari fratelli,
Questa domenica ci troviamo di fronte ad un testo che potrebbe sembrare, ad un primo avviso, davvero distante dalla nostra mentalità contemporanea e dal contesto in cui viviamo.
E’ un annuncio di salvezza con il quale il Signore, per mezzo del Suo profeta Isaia, rassicura il popolo d’Israele sulla propria fedeltà, sul fatto che ricondurrà la sua discendenza da ovest a est, da sud a nord.
Dio ama il Suo popolo e non lo abbandonerà, lo farà passare indenne attraverso l’acqua e il fuoco, non potrà succedergli davvero nulla.
Dio è il Signore della storia e promette al suo popolo un nuovo grandioso passaggio attraverso il Mar delle Canne. Un nuovo approdo dall’Egitto verso la terra dove scorre latte e miele.
La promessa è fondata sul fatto che Dio ha formato il Suo popolo, non può lasciarlo andare al suo destino, ma interverrà e manterrà le Sue promesse anche se il popolo tante volte lo ha abbandonato.
Risalta subito la cura che il Signore ha per il Suo popolo. Con parole poetiche il profeta da ragione dell’amore incommensurabile di Dio.
Ma chi è oggi questo popolo, e questa promessa fatta più di due millenni fa’ è tuttora valida?
Diciamo subito che Isaia è un profeta universalista che fa, potremmo dire oggi, del pluralismo il suo marchio di fabbrica. Il suo universalismo sfocerà poi in quello dell’evangelo.
Lo testimonia anche questo passaggio:
“Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti, e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie, e possiamo camminare nei suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti, e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Isaia 2,2-4).
Secondo questi versetti al tempio del Signore affluiranno tutte le genti, verranno molti popoli.
Potremmo quindi dire che il popolo cui si rivolge il Signore, per mezzo del profeta Isaia, nei versetti di questa domenica, siamo noi.
E’ un Noi che però non è esclusivo, non riguarda solo noi che siamo qui riuniti in questa chiesa, noi che ci diciamo cristiani o noi che viviamo in occidente.
Per rimanere fedeli al linguaggio del profeta, è un Noi totalmente inclusivo che riguarda proprio tutti e tutte, a tutte le latitudini e longitudini, qualsiasi sia la lingua parlata, la fede professata, il colore della pelle, maschi e femmine. E’ un Noi che è un tutti.
E’ questo Noi che il Signore ricondurrà a se dall’occidente e dall’oriente, dal mezzogiorno e dal settentrione.
Questo Noi, secondo la Scrittura, può contare sulla bontà del Signore, sulla sua misericordia, ma anche sul suo giudizio.
Ma è proprio così? Possiamo avere fiducia?
Se fermassimo il nostro sguardo solo sulla miseria, l’indifferenza, la violenza, la distruzione, la morte di cui, come umanità, ci siamo macchiati e ci macchiamo, queste parole di Isaia non farebbero altro che abbandonarci alla tristezza ed alla disperazione.
Ma come, ma quando? I popoli, e in particolare i poveri, urlano il loro grido di dolore. Dio dov’è?
Si esaltano i violenti, e si umiliano i mansueti. Tutte le nostre piazze hanno monumenti a “grandi” generali e guerrieri, tutto sembra premiare chi prevarica i deboli.
Non c’è né misericordia, né giudizio. Il Signore appare come un’entità lontana che tutt’al più ci ha creato, ma ora ci ha lasciato al nostro destino. Sembra che ci dica: “si salvi chi può, non chiedete a me”.
Si, a guardare la situazione del mondo e non solo quella contemporanea, ma di ogni epoca, la Terra ci appare come una landa solitaria dove ognuno e ognuna è in lotta per la propria sopravvivenza e per i propri interessi.
In questo sguardo, che può sconfinare nel nichilismo, non c’è speranza, non c’è un Dio, non c’è un popolo da ricondurre.
La visione di Isaia ci appare lontana, irrealizzabile.
Quindi, per questo, dovremmo rassegnarci all’amarezza, alla delusione, allo scoraggiamento per una salvezza che non potrà mai giungere?
Personalmente credo di no, come comunità dobbiamo dire di no.
E su cosa dovremmo fondare la nostra fiducia e la nostra speranza? Forse sulle parole del profeta?
Si, la nostra fiducia e la nostra speranza sono proprio fondate sulle parole del profeta, sulle parole del Signore, sull’azione dello Spirito.
Isaia, ispirato dal Signore, ha uno sguardo e una prospettiva che si proiettano più lontano rispetto al nostro sguardo e alla nostra prospettiva.
Vanno ben aldilà dei nostri risicati orizzonti.
In effetti la terra è malata, lo è stata sempre. Infettata dal nostro orgoglio, dal nostro non volere riconoscere i nostri limiti. Limiti che fanno parte di noi, che caratterizzano in tutto il nostro essere dalla nascita alla morte, limiti che camminano con noi.
E, allora, senza la coscienza del limite, pensiamo di essere i proprietari di tutto e di tutti, pensiamo di potere agire senza alcuna attenzione alle conseguenze che le nostre azioni hanno sulla vita dei nostri simili.
Siamo e restiamo indifferenti verso tutto ciò che ci circonda, non solo la compassione, ma anche la gentilezza, rimangono come delle “qualità” da manifestare solo quando ci conviene.
Ma, il profeta Isaia ha uno sguardo più ampio, vede una salvezza che ci raggiungerà e ci renderà finalmente pienamente felici.
E dove è rivolto questo sguardo più ampio?
Alla fine dei tempi, quando il Signore ricapitolerà tutto e farà davvero di tutti i popoli un solo popolo.
Perché tutto il creato appartiene al Signore, e tutto ritornerà a Lui.
Dobbiamo fidarci di questa Parola, perché non solo è una Parola autentica ma è anche una Parola che ci interroga che, ci invita a svegliarci dall’intorpidimento, dal sonno delle nostre vite.
Ma allora, potremmo chiederci, da qui alla fine dei tempi cosa succederà? Cosa ne facciamo delle nostre vite? Possiamo avere davvero fede?
Sino all’irrompere definitivo del Regno di Dio non ci potrà essere una vera pace sulla terra (la storia ci parla), continueranno le ingiustizie, ma le nostre vite possono fare la differenza, possono essere creative e, partendo dalla fede che professiamo, sono in grado di offrire al mondo una dimensione di fratellanza e sorellanza, di giustizia e di misericordia.
Attraverso le nostre vite siamo in grado di dare un senso alle Parole del Profeta, dimostrando che un altro mondo è possibile.
Possiamo essere strumenti docili dello Spirito, adoperandoci per l’umanità sofferente, non voltando mai lo sguardo dall’altra parte anche se quello che guardiamo ci disturba.
Gesù stesso ci ha offerto una visione del Regno. Una dimensione dove non esistono più discriminazioni, dove il Signore ci accoglie tutti e tutte per quello che siamo, non per i piccoli e grandi poteri che abbiamo avuto sulla terra. Anzi, le nostre prevaricazioni terrene ci impediranno l’entrata nel Regno.
Se entreremo nel Regno, sarà il nostro riposo, lo shabbat delle nostre esistenze.
19 «C'era un uomo ricco, che si vestiva di porpora e di bisso, e ogni giorno si divertiva splendidamente; 20 e c'era un mendicante, chiamato Lazzaro, che stava alla porta di lui, pieno di ulceri, 21 e bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; e perfino i cani venivano a leccargli le ulceri. 22 Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abraamo; morì anche il ricco, e fu sepolto. 23 E nell'Ades, essendo nei tormenti, alzò gli occhi e vide da lontano Abraamo, e Lazzaro nel suo seno; 24 ed esclamò: "Padre Abraamo, abbi pietà di me, e manda Lazzaro a intingere la punta del dito nell'acqua per rinfrescarmi la lingua, perché sono tormentato in questa fiamma". 25 Ma Abraamo disse: "Figlio, ricòrdati che tu nella tua vita hai ricevuto i tuoi beni e che Lazzaro similmente ricevette i mali; ma ora qui egli è consolato, e tu sei tormentato. 26 Oltre a tutto questo, fra noi e voi è posta una grande voragine, perché quelli che vorrebbero passare di qui a voi non possano, né di là si passi da noi". 27 Ed egli disse: "Ti prego, dunque, o padre, che tu lo mandi a casa di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli, affinché attesti loro queste cose, e non vengano anche loro in questo luogo di tormento". 29 Abraamo disse: "Hanno Mosè e i profeti; ascoltino quelli". 30 Ed egli: "No, padre Abraamo; ma se qualcuno dai morti va a loro, si ravvedranno". 31 Abraamo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno persuadere neppure se uno dei morti risuscita”» (Luca 16,19-31).
Il ricco epulone si accorge troppo tardi che ha dissipato la propria vita, mentre il mendicante Lazzaro è accolto dagli Angeli nel cuore di Dio. Abramo, di fronte alla richiesta di mandare Lazzaro per avvisare i cinque fratelli dell’infelicità di rimanere privati del volto di Dio, non può che dirgli: "Se non ascoltano Mosè e i profeti, non si lasceranno persuadere neppure se uno dei morti risuscita”.
Devono ascoltare Mosè e i profeti, quindi la Scrittura. Tutto torna.
Se avremo pazienza, se saremo perseveranti in questo ascolto gusteremo il volto di Dio.
Ma quando tutto ciò avverrà?
Dopo aver raccontato la parabola del giudice ingiusto che “accontenta” la vedova solo per la troppa insistenza della donna, Gesù dice:
«6 Ascoltate quel che dice il giudice ingiusto. 7 Dio non renderà dunque giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui? Tarderà nei loro confronti? 8 Io vi dico che renderà giustizia con prontezza. Ma quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?» (Luca 18,6-8).
Eh, si è tutta una questione di fede. Quando Gesù tornerà ci troverà pronti?
Questo dovremmo fare delle nostre vite: una testimonianza della bontà del Signore, dovremmo essere “la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta, 15 e non si accende una lampada per metterla sotto un recipiente; anzi la si mette sul candeliere ed essa fa luce a tutti quelli che sono in casa (Matteo 15, 14-15).
Una città posta in alto, una lampada che fa luce per tutti quelli che sono in casa.
La casa è il nostro mondo e Gesù ci ha lasciato proprio questa missione. Praticare tra gli uomini e le donne la misericordia e la giustizia.
Oggi la lettura di “Un giorno, una Parola”, proprio a tal proposito, offre uno spunto interessante. Ci dice che un’antica tradizione ebraica afferma che il mondo riposa su 36 Giusti. Questi Giusti, in nulla distinti dai comuni mortali, spesso non sanno di esserlo neppure loro. Ma se uno mancasse, la sofferenza degli uomini avvelenerebbe persino l’anima dei neonati, e l’umanità soffocherebbe in un grido. Poiché questi Giusti sono il cuore moltiplicato del mondo, ed in essi si versano tutti i nostri dolori, come in un ricettacolo.
Ecco cosa potremmo fare del nostre vite, provare ad essere come ognuno di questi 36 giusti.
Amen.