Alla conclusione della precedente riflessione ci siamo lasciati con tre parole chiave: “responsabilità”, “prossimità” e “concretezza”. Mi piacerebbe ora provare ad approfondire la prima di quelle tre parole, ossia “responsabilità”. Se facciamo un giro su internet e interroghiamo Wikipedia o il vocabolario Treccani troveremo diverse definizioni della parola “responsabilità”. Molte di esse hanno un’accezione legalistica. Non è da questo punto di vista che desidero affrontare l’argomento. Piuttosto, voglio partire dal passo di Genesi 4,9: Allora il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?»
E’ proprio nella domanda del Signore a Caino e nella risposta di quest’ultimo che possiamo trovare la via per rispondere alla domanda su cosa sia la responsabilità. Caino in effetti non risponde a ciò che Dio gli aveva chiesto, ma pone a sua volta un'altra domanda che in sostanza è una via di fuga dalle proprie responsabilità. Anche noi di fronte alle tante domande del nostro tempo e della nostra coscienza siamo tentati a dare una risposta come quella di Caino: sono forse io il custode di...? Sono forse io il custode dei migranti che muoiono nel mediterraneo? Sono forse io il custode dei disabili? Sono forse io il custode dei poveri? Sono forse io il custode dei fratelli che chiedono il mio aiuto? Sono forse io il custode di questa nostra Terra sempre più violentata e oppressa per la volontá di sfruttamento e l'ingordigia del denaro e del potere? Sono forse io il custode delle vittime dell’arroganza e della violenza mafiosa? Il peso delle questioni in gioco offre, quindi, pure a noi una comoda via di fuga, perché ci appaiono come fardelli così pesanti e insopportabili che la risposta piú immediata sarebbe: “non sono io che debbo salvare il mondo”.
Il rifluire nel privato deriva proprio dalla difficoltà di comprendere questi interrogativi e tale afasia ci opprime a tal punto dal costringerci spesso alla resa, dal “rifiutarci” addirittura di rispondere. La chiave di volta sta però sempre nella nostra coscienza. É bello ascoltare la nostra coscienza, perché è lí che sta il primato della nostra natura di uomini. É indispensabile praticare un'ecologia della coscienza, scavarvi a fondo per ritrovare il senso del vivere qui e ora. Il frutto prezioso dell'ascolto puó essere quello della nostra "conversione" che non va intesa come l'adesione ad una qualsiasi religione, ma come un cambiamento di paradigma, una mutazione dei nostri comportamenti, delle nostre prassi quotidiane. Allora possiamo dire che il valore della responsabilitá é nell'ascolto, perché l'ascolto ci permette di connetterci con noi stessi e con gli altri. L’ascolto a sua volta richiede la pazienza e l’abbandono della superficialità, dell’indifferenza e di quella forma di pigrizia che va sotto il nome di acedia, che poi è l’altro significato dell’indolenza.
La responsabilità esige poi la serietà, che non vuol dire essere seriosi, ma interpretare la nostra vita come un dono che possiamo spendere insieme agli altri, sentendoci parti di un tutto che va aldilà della somma di tutte le nostre vite. Solo così il fardello, che ci può apparire a prima vista così pesante, potrà trasformarsi in una grande opportunità di costruire qualcosa di bello, qualcosa che diventa costruzione di comunità, aiutandoci a non sprecare le nostre vite. (pubblicato pure su uildmchiaravalle.org)