La crisi globale dei mercati finanziari di questi ultimi giorni non è arrivata per caso, ma è figlia della politica, o meglio dell’assenza della politica. Il crollo, sul finire degli anni ’80, del muro di Berlino segnò anche la fine del comunismo, per lo meno quello inteso come forma di governo totalitaria e avente il suo paradigma nell’Unione Sovietica. La sconfitta storica del comunismo si rivelò tale sotto tutti gli aspetti, da quelli sociali, a quelli politici, a quelli economici. Soprattutto dal punto di vista economico molti celebrarono la vittoria assoluta e finale del capitalismo come sistema in grado di garantire a tutti democrazia e benessere economico. Ricordo tra le poche voci fuori dal coro quella di Giovanni Paolo II, che avvertiva come il capitalismo senza freni e senza solidarietà sociale avrebbe provocato grandissimi guasti e ingiustizie macroscopiche, parole che però non furono comprese. Da allora iniziò l’abdicazione della politica. Crollato di schianto il nemico comunista, le parole d’ordine divennero: privatizzare, deregolamentare, liberalizzare. Pian piano la politica rinunciò a governare, facendosi a sua volta ostaggio dell’economia e molto rapidamente della finanza. Sul motto “privato è bello ed anche è meglio” si tornò a incensare la funzione auto-regolatrice del mercato. Il mercato però non è dotato di questa virtù. Il privato svincolato dalle regole tende a conservare solo se stesso, tende a essere naturalmente egoista e a massimizzare i profitti il più rapidamente possibile, non preoccupandosi delle ricadute a medio e lungo termine e di tutta quella parte della società che non avendo un peso economico adeguato è costretta a stare ai margini.
Il risultato è sotto gli occhi tutti. Banche, multinazionali, grandi gruppi ai quali sono state lasciate letteralmente in mano le leve dell’economia mondiale falliscono e con esse fallisce tutto quello che ha favorito il grande bluff, travolgendo però migliaia di famiglie.
Insieme con esse a fallire è anche un modo di fare politica che negli ultimi venti anni ha progressivamente rinunciato alla sua funzione di regolazione, non reagendo al pressing, ai ricatti e all’azione di lobbing di quelle stesse imprese e istituzioni economiche che oggi sono lì prone a chiedere l’intervento dei governi per salvarsi. E i governi intervengono per salvare il salvabile, con effetti però paradossali. Coloro che hanno propugnato il “libero mercato” come nuovo dio infallibile e che si sono stracciati le vesti a ogni minimo rumore d’intervento statale, oggi benedicono i salvataggi governativi, senza peraltro avere il coraggio di fare autocritica e senza riconoscere che in questi anni di finanza selvaggia in pochi si sono arricchiti, mentre adesso tutti i contribuenti sono chiamati a ripianare i debiti. Insomma, gli utili sono stati privatizzati e le perdite rese pubbliche: se questo è mercato!!!
(Domenica, 12 ottobre 2008)