Martedì 14 dicembre è stata “una giornata particolare”, una giornata che certamente ha scritto un pezzo amaro della nostra storia. Due avvenimenti sono accaduti a poche centinaia di metri di distanza, ma più lontani e "estranei" tra loro non potevano essere, pur essendo l'uno collegato all'altro.
Alla Camera dei Deputati è andato in scena uno spettacolo deprimente, non tanto per il risultato ma per il modo con il quale è maturato e soprattutto perché si è avuta la conferma di un emiciclo ridotto a curve di tifoserie ultras (e meno male che si è sempre alla ricerca della figura mitologica del moderato. Ma moderato rispetto a che?). Poi, quel luogo della rappresentanza popolare blindato ha dato il segno della distanza di quei “rappresentanti” dal popolo.
Nelle vie di Roma, fuori dal palazzo, si è sollevata la protesta contro il palazzo, una protesta che voleva essere colorata, fantasiosa, non violenta, ma che in modo inaccettabile si è trasformata in violenza. Una violenza che rischia, come ben ha scritto Roberto Saviano nella sua lettera pubblicata su "repubblica.it", di delegittimare un movimento che stava costruendo la sua credibilità sulle ragioni della lotta. Con la violenza, è bene assolutamente dirlo, non si va da nessuna parte. Nella storia del novecento abbiamo mirabili esempi di come le lotte non violente siano state capaci di vincere contro avversari che avevano dalla loro parte l’uso preponderante della forza (Nelson Mandela, Gandhi, Martin Luther King).
Ma fermarsi a condannare la violenza non basta, è necessario andare oltre. Lo dimostrano i tanti messaggi che il sito "repubblica.it" ha ricevuto dopo la pubblicazione della lettera di Saviano. Alcuni dei quali ribadivano che di fronte all’assoluta sordità delle istituzioni ormai non c’è più niente da perdere e, quindi, anche l’impiego della forza diventa un mezzo per lottare contro il potere. Bisogna allora tentare di capire, non chiudersi a riccio e non limitarsi a relegare tutto nella sola questione dell’ordine pubblico.
Alcuni hanno immediatamente fatto il paragone con le violenze degli anni settanta del novecento. Ma l’assioma non è convincente. Negli anni settanta c’era ancora un idea di futuro, si intravedeva la possibilità per le generazioni future di migliorare rispetto a quelle precedenti. La protesta a destra, come a sinistra, era assolutamente ideologizzata, vissuta e subita in un contesto di lotta politica estrema. Oggi, invece, l’idea di futuro si è persa, le nuove generazioni hanno pochissime speranze, o nessuna, di migliorare il proprio tenore di vita rispetto a quello dei loro genitori, anzi le prospettive sono assolutamente negative. Sono i giovani del cosiddetto “lavoro mai”. Persone non ideologizzate, che non rispondono ad alcuna parte politica, anche perché l’attuale conformazione del Parlamento, frutto delle elezioni del 2008, ha lasciato inopinatamente e disgraziatamente fuori tantissime istanze sociali e politiche. Infatti, nelle loro manifestazioni non si vedono bandiere, ma si gridano slogan, si innalzano cartelli, si mostrano provocatoriamente titoli di libri. Sono senza rappresentanza politica. Forse è proprio questo che deve fare riflettere e in particolar modo i partiti politici che non riescono a rappresentare le loro istanze, che sono distanti dalle loro preoccupazioni sul futuro, che non colgono il loro bisogno di essere ascoltati. Solo sforzandosi di capire si può tentare di togliere i picconi, le pale e i sanpietrini dalle mani di alcuni di loro ed isolare i violenti.
(Sabato, 18 dicembre 2010)