venerdì, 09 febbraio 2007
Sono cattolico, sposato, papà di un bambino di otto anni. Insomma, ho una famiglia cosiddetta “tradizionale”. Eppure non credo che la mia famiglia possa perdere qualcosa o addirittura sentirsi ferita dal riconoscimento di alcuni importanti diritti a persone che vivono i loro rapporti affettivi in una condizione diversa dalla mia.
Regolare giuridicamente le convivenze, che ormai sono frequentissime nella nostra società anche tra coppie etero sessuali, rappresenta un passo di enorme civiltà. Pensiamo a situazioni nelle quali due persone si sono volute bene per anni, hanno affrontato durissime prove insieme come l'assistersi ed il confortarsi reciprocamente nel corso della malattia, magari anche grave, hanno condiviso insomma gioie e dolori per un lungo tratto della loro vita. Magari hanno fatto ciò nella solitudine, perché sono stati abbandonati da tutti i loro parenti perché “non politicamente corretti”, perché fuori dalla “normalità”, perché si sono vergognati di loro. Non è giusto che queste persone possano vantare dei diritti di carattere successorio o riguardanti l'assistenza sanitaria o relativi ad altri diritti civili derivanti direttamente dalla loro condizione di convivenza? In cosa un tale riconoscimento scardina l'idea comune di famiglia?
Il rifiuto dei patti di convivenza civile nasconde di frequente forme di ipocrisia, da parte di persone che loro stesse vivono condizioni di convivenza fuori dal matrimonio. Si tratta di persone che formalmente “difendono” l'idea tradizionale di famiglia, ma sostanzialmente tradiscono il principio proclamato con la vita vissuta. Con una sola differenza, godono di strumenti economici e politici che li tengono al riparo dai problemi che altre persone nella loro stessa condizione devono affrontare e subire senza potersi appellare a niente. Molto spesso il rifiuto è dettato solo dal desiderio di compiacere alle posizioni ufficiali della Chiesa Cattolica.
Il legislatore però deve occuparsi di tutti i cittadini, di quelli cattolici, che tra l'altro non so quanto effettivamente condividano la posizione di chiusura della Chiesa, (io per esempio non la condivido) e di quelli che cattolici non lo sono. Il nostro stato è uno stato laico, non confessionale, ed anche i cattolici in politica devono operare tenendo fortemente in considerazione questa natura di laicità. E' legittimo che la Chiesa “ufficiale” esprima il suo pensiero, ma è altrettanto giusto che il Parlamento si adoperi per trovare soluzioni che, nel leggere le esigenze di una moderna società, possano condurre all'accrescimento dei diritti dei cittadini, nel pieno rispetto della dignità di ogni persona e della sua condizione sociale.