Gli italiani sono sempre di più un popolo di teledipendenti. Immersi ormai in un gigantesco reality, stanno perdendo definitivamente il senso dell’orientamento e non riescono, o non vogliono, capire che il limite del rincretinimento individuale e collettivo è ampiamente oltrepassato. Tutto è un immenso show che deve essere vissuto in presa diretta e del quale ognuno può, anzi deve, diventare protagonista. E così quello schermo fagocita coscienze, valori, sentimenti, individui.
Anche la politica, invece di occuparsi dei problemi del paese, perde buona parte del suo tempo a discutere su ciò che deve o non deve essere trasmesso in tv, in un gioco che sembra essere alimentato in maniera speculativa dai vari “attori” di una commedia infinita.
La "moderna" televisione ha poi eliminato il dialogo per introdurre la lite continua, vince chi è capace di alzare più la voce, anche se poi non ha niente da dire. Se fino alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso la televisione ha contribuito a unire il paese e a migliorare la cultura di molti cittadini, a partire dagli anni ‘80 si è incamminata, con poche eccezioni, verso il percorso inverso sdoganando informazione faziosa, volgarità varie, scempi in diretta. E il frutto di quasi trenta anni di cattiva tv ha prodotto ciò che abbiamo di fronte: l’annullamento della coscienza critica, il falso mito del successo e dei soldi facili, l’adozione a modello di vita di pupi, veline, persino di criminali, altre amene mediocrità, e chi più ne abbia più ne metta.
Quello che a cui poi stiamo assistendo in questi ultimi giorni ci da il segno che forse abbiamo raggiunto il fondo e che è il momento di fermarsi e non accettare più supinamente ciò che ci viene proposto. Un primo moto di ribellione esiste. Abbiamo dei bellissimi telecomandi, usiamoli per cambiare canale o se, necessario, spegnere il televisore: state tranquilli che se ne accorgeranno.
(Venerdì, 22 ottobre 2010)