C'è un olocausto di cui si parla poco e di cui ci si vergogna ancora meno: quello che ha avuto il suo epicentro nell'isola di Gorèe in Senegal, a pochi chilometri dalla capitale Dakar. In quel posto, oggi diventato "un'attrazione turistica", per tre secoli, dal 1536 al 1848, milioni di africani catturati in tutto il continente (non si sa bene il numero, c'è chi dice 20 milioni, chi si spinge sino a 65 milioni), furono consegnati ai negrieri, detenuti in condizioni a dir poco disumane nella Maison des Eclaves e poi, se ritenuti "idonei", venduti ai commercianti europei che li stipavano nelle loro navi e, se non naufragati nel corso della navigazione, li facevano sbarcare in catene nei porti americani dove erano rivenduti come schiavi. Molte donne erano "oggetto", già nell'isola, di schiavismo sessuale. Chi non veniva ritenuto "idoneo" (c'erano persone addette alla verifica della muscolatura) o non raggiungeva il peso prefissato nei tempi di reclusione stabiliti, riceveva in sorte di essere buttato a mare (con catene di quindici chili) in pasto agli squali dopo aver percorso uno stretto e buio, e possiamo solo immaginare quanto angosciante, cunicolo che culminava nella cosiddetta "porta del non ritorno". Tutto ciò anche con la compiacenza della chiesa cattolica e di grandi intellettuali e filosofi come Hegel, Voltaire, Locke, Montesquieu che acquistavano i buoni fruttiferi speciali emessi dai loro rispettivi paesi per finanziare le missioni schiaviste. Ora come ci dovremmo porre di fronte ad una storia come questa? Io penso in una condizione di assoluto rispetto e umiltà, riconoscendo che la nostra "cultura" ha molto da risarcire ai discendenti di questa umanità che ha contribuito con il dolore e con il sangue al nostro "progresso" e che però continua ad essere violata nella sua dignità.
(Mercoledì, 15 agosto 2018)