(Chiesa Evangelica Valdese di Catanzaro, domenica 31 dicembre 2023)

Ecclesiaste 3,1-15

Care sorelle, cari fratelli,

che mistero il libro dell’Ecclesiaste, o del Qohelet! 

La presenza all’interno del canone ebraico e cristiano di questo libro provoca davvero interrogativi enormi. Ma, d’altro canto, i testi delle nostre Scritture generano sempre, ed a ogni lettura, domande sempre nuove alle quali come credenti siamo invitati a rispondere  interrogandoci a nostra volta.

Non dobbiamo scandalizzarci se non sempre riusciamo a comprendere sino in fondo il senso di ciò che leggiamo, l’importante è sempre e comunque porsi alla ricerca, non abbandonare il cammino, con l’assoluta e umile fiducia che il Signore saprà guidare i nostri passi sulla via del discernimento che, in ogni caso, sarà sempre parziale.

L’Ecclesiaste è proprio uno di quei libri problematici che sembra sfuggirti sempre dalle mani, ma forse proprio questa è la sua bellezza.

La sua ingestibilità ci consiglia di maneggiarlo con molta cura senza pervenire a soluzioni preconfezionate. 

Rientra nel novero dei libri sapienziali, ma opera un netto distacco dallo stile e dal linguaggio della sapienza dei Proverbi, del Cantico dei Cantici, di Giobbe.

Forse proprio per questo ha destato e desta un immenso fascino, che ha indotto innumerevoli studiosi, teologi, scrittori, anche non credenti, ad interessarsi di questo libro, a provare a capire qual è esattamente il suo posto all’interno della Bibbia Ebraica, ma soprattutto cosa intende dire a chi lo legge.

Scetticismo, pessimismo, disperazione, addirittura cinismo: sono questi i caratteri che molti autori hanno attribuito all’Ecclesiaste. Addirittura alcuni ne mettono in evidenza l’assenza di Dio, nel senso che Dio c’è nel testo ma è un Dio distante, imperturbabile, un Dio che non agisce nella storia degli uomini. 

E’ davvero così?

Certo ad una lettura disincantata del testo, saremmo portati a dare ragione a coloro che la pensano così. In effetti, in alcuni passaggi emerge la tentazione di condividerne anche la lettura pessimistica e disperante, lasciandosi andare ad una visione nichilista del senso delle parole dell’autore, che però sa fare anche un buon uso dell’ironia.

L’Ecclesiaste è peraltro un libro pieno di contraddizioni.

Anche per questo non è entrato nel canone biblico tanto agevolmente, ma oggi il suo testo è uno dei “Meghillot”, uno dei cinque rotoli che vengono letti pubblicamente durante alcune feste ebraiche. L’Ecclesiaste viene letto durante la festa della “Capanne” o “Sukkot” che ricorda la permanenza del popolo ebraico nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto.

Quindi l’Eccesiaste è un libro che “contamina le mani” come ogni altro libro della Bibbia Ebraica.

Come tale dobbiamo assumerlo e provare, dico solo provare, ad individuarne qualcuno tra i possibili sensi. 

Ma chi ne è l’autore?

Egli si presenta, al capitolo 1, versetto 1, come “figlio di Davide, re di Gerusalemme”.

Quindi, saremmo portati ad  intendere che si tratta del re Salomone. Un affascinante commento midrashico dice che Salomone avrebbe scritto da giovane il Cantico dei cantici, da uomo maturo il libro dei Proverbi e, nella sua disincantata vecchiaia, proprio il libro del Qohelet.

Ma tutti gli studi più approfonditi sono d’accordo nell’attribuire il testo ad un aristocratico “predicatore”, ad un “raccoglitore” vissuto tra il II° e il III° secolo a.C., in piena epoca ellenistica. 

In effetti, Ecclesiaste significa proprio “predicatore” e Qohelet deriva dalla parola ebraica “Qol” che significa voce. 

L’Ecclesiaste è proprio una predica, la voce di un predicatore rivolta all’Assemblea. 

Prima di passare al nostro testo di questa domenica, è però interessante tracciare, in un rapido quadro, i temi che l’autore affronta nel suo scritto. 

Tutto libro è pervaso dalla riflessione sulla “vanità”. Esordisce al capitolo 1, versetto 2, con “vanità delle vanità, tutto è vanità”. 

Il senso del vivere è racchiuso all’interno dell’assoluta vanità delle azioni umane, ma la vita, se vuole sconfiggere questa vanità deve sempre volgersi al timore di Dio.

Entrando nel merito del nostro testo, possiamo suddividerlo in due parti: la prima dai versetti dall' 1 all’ 8 e poi i versetti dal 9 al 15.

La prima parte è un vero e proprio poema che si può leggere in parallelo a quello del capitolo 1 dal versetto 2 all’11:

“2 Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
3 Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole? 4 Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre. 5 Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo. 6 Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri. 7 Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre. 8 Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire. 9 Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole. 10 C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto. 11 Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.” 

In questi versetti del 1° capitolo l’Ecclesiaste ci pone di fronte all’immutabilità della creazione. Tutto, nel disegno di Dio, è funzionale alla sussistenza della terra. Tutti gli elementi hanno il loro ciclo vitale per assicurare la vita del pianeta. 

Si generano e si rigenerano, in un moto circolare continuo che non conosce sosta e che è indipendente da qualsiasi volontà umana.

Certo oggi potremmo dire che l’uomo è arrivato ad un livello così alto, e talvolta distruttivo, di conoscenze scientifiche e tecnologiche che è anche in grado di condizionare pesantemente il ciclo vitale degli elementi.

Il riscaldamento globale è infatti una delle più grandi preoccupazione dei cittadini e delle cittadine.

Ma, l’Ecclesiaste ci mette in guardia: l’uomo pensa di essere il padrone dell’universo, ma anche questa presunzione, potremmo dire, è vanità della vanità. 

Al di sopra dell’uomo c’è la sovranità di Dio che governa l’alternarsi degli elementi, il ciclo della vita della Terra.

L’uomo non riuscirà mai ad arrogarsi il diritto di alterare la creazione buona di Dio, perchè in questa creazione c’è un ordine immodificabile che non è a disposizione dell’uomo.

L’uomo potrà continuare ad inquinare, a fare guerre, a distruggere l’ambiente che lo circonda, ma la creazione di Dio è inscalfibile. 

Questa creazione resisterà anche alla malvagità dell’uomo, alla mancanza di cura per i suoi simili, al suo egoismo.

La storia del diluvio ce l’ho insegna: “..Io non maledirò più la terra a cagione dell'uomo, poiché i disegni del cuor dell'uomo sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; e non colpirò più ogni cosa vivente, come ho fatto. 22 Finché la terra durerà, sementa e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno mai” (Genesi 8,21-22).

Confrontando i due poemi del capitolo 1 con il nostro del capitolo 3, è evidente che l’Ecclesiaste pone un distacco tra ciò che è governato da Dio e ciò che può essere gestito dalle mani dell’uomo.

Nel versetti di questa domenica, c’è il nostro spazio, lo spazio delle nostre vite, delle nostre scelte.

Ed è significativo che la nostra liturgia ci propone questo testo a conclusione dell’anno e in prospettiva all’anno nuovo.

Infatti, il poema del nostro testo (Ecclesiaste 3,1-8) ci parla di Tempo.

C’è un Tempo per ogni azione umana, ma questo Tempo non ha già una durata prefissata, dipende da noi come vivere questo Tempo che il Signore ci dona.

Il poema del Tempo è uno dei più citati dal libro dell’Ecclesiaste. Anche noi, molte volte, lo abbiano fatto ricavandone un uso forse improprio immaginando che anche questo fosse un tempo ciclico, un tempo predeterminato sul quale non possiamo mettere le mani. 

Un tempo che possiamo solo subire.

Lo hanno pensato anche autori importanti nelle loro riflessioni. 

Invece, l’Ecclesiaste ci da questo Tempo, lo mette in mano degli uomini e delle donne. Ci dice che all’interno del tempo eterno di Dio, siamo chiamati a vivere in pienezza il nostro tempo di esseri umani. 

E, questo non è un Tempo ciclico secondo il quale deve finire un periodo per cominciarne un altro, in una continua alternanza.

Non è, nemmeno, un Tempo dove c’è un positivo contrapposto al negativo.

Certo nel poema c’è un alternarsi di situazioni, di sentimenti in cui possiamo essere coinvolti, ad alcuni dei quali si può dare un senso positivo ed altri un senso negativo.

Ma, è un tempo non definito, non storico.

Non troviamo neanche una scansione del calendario.

Sta alla nostra responsabilità scegliere se amare o odiare, se fare la pace o la guerra.

Lo possiamo fare ogni giorno, tutti i giorni della nostra vita.

Nei nostri pensieri, nelle nostre scelte e azioni quotidiane, configuriamo e costruiamo il tempo che vogliamo vivere.

Siamo sempre posti davanti a delle scelte e nello stesso Tempo possiamo vivere situazioni divergenti, anche opposte se vogliamo, contraddittorie. Ma dobbiamo saperlo che il Tempo delle nostre vite dipende da noi. 

 “Vedi, io metto oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io ti comando oggi di amare il SIGNORE, il tuo Dio, di camminare nelle sue vie, di osservare i suoi comandamenti, le sue leggi e le sue prescrizioni, affinché tu viva e ti moltiplichi, e il SIGNORE, il tuo Dio, ti benedica nel paese dove stai per entrare per prenderne possesso” (Deuteronomio 30,15-16).

Potremmo dire che qui l’Ecclesiaste non è né pessimista, né disperante, né scettico, è solo realista. 

E’ il libro di un saggio che ha molto riflettuto e le cui parole ci mettono davanti alle nostre coscienze, alla nostra etica.

Non ci indica neanche una strada, ma ci pone di fronte a delle alternative, a delle possibilità. Le scelte comunque dobbiamo farle noi, assumendocene le responsabilità.

D’altro canto “I cieli e la terra sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo” (Salmo 115,16).

L’Ecclesiaste non ci promette neppure una ricompensa per le nostre azioni, non c’è un premio finale, non c’è una redenzione, ma ci invita comunque a temere Dio.

Il timore di Dio, anche nel linguaggio dell’Ecclesiaste non è paura, ma è la consapevolezza che Lui c’è, che dobbiamo vivere nella relazione con un Dio che ci dona addirittura il pensiero dell’eternità.

Se c’è questo riconoscimento della realtà di Dio, allora le nostre scelte sono conseguenti e, nonostante le nostre incoerenze, possiamo fare delle nostre vite un capolavoro.

Il timore di Dio ci consente di interrogarci costantemente sul Suo cuore, su come possiamo agire per fare la Sua volontà.

Il timore di Dio ci consente anche di fare un continuo discernimento sul nostro cuore alla luce del pensiero di Dio, per tenere lontani pensieri cattivi, pensieri di invidia e gelosia, pensieri che ci conducono fuori dalla bellezza, pensieri che poi magari ci conducono a fare il male.

I nostri tempi dipendono, dunque, dal nostro timore di Dio, dal rispetto che abbiamo del Suo nome.

Quotidianamente possiamo inoltrarci su sentieri di bene e di male, di amore e di odio, di giustizia e di ingiustizia, di pace e di guerra.

Talvolta ci capita pure di vivere contemporaneamente tempi di bene e di male, di amore e di odio, di giustizia e di ingiustizia, di pace e di guerra.

Questo perché, come esseri umani, abbiamo spesso il cuore diviso, un cuore spezzato nelle nostre mille contraddizioni.  

Non dobbiamo avere paura se ciò succede, fa parte della nostra condizione di precarietà, come ben ci insegna l’Ecclesiaste, che però ci istruisce pure a continuare a ricercare, a non fermarci, a godere comunque della vita che è dono di Dio.

Al versetto 11 l’Ecclesiaste ci spiega che:

11 Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha perfino messo nei loro cuori il pensiero dell'eternità, sebbene l'uomo non possa comprendere dal principio alla fine l'opera che Dio ha fatta.

Le parole dell’Ecclesiaste non ci possono indurre a pensare che si riferisse alla vita eterna, perché il pensiero dell’eternità come prosecuzione della vita oltre la morte non c’è nel libro, ma dentro queste parole matura l’invito per noi umani a vivere una vita piena, una vita bella.

Dio ci ha instillato il desiderio dell’eternità. L’Ecclesiaste non si esprime oltre su questo pensiero e tantomeno noi possiamo fargli dire ciò che non dice, ma il desiderio dell’eternità è qualcosa che davvero è radicato nel cuore di ogni credente, perché radicato nella fede in Dio che è eterno.

Avere fiducia in questo pensiero dell’eternità ci può aiutare a vivere con maggiore consapevolezza la realtà che non siamo soli su questa terra, che Dio dona la vita a tutte e tutti e nessuno può disprezzare, maltrattare la vita altrui, proprio perché dono massimo di Dio e i doni ricevuti vanno ricambiati attraverso il rispetto reciproco, l’empatia e l’amore.

Allora, accogliere la vita come dono di Dio, viverla nel tempo che ci è concesso su questa terra come un’esperienza meravigliosa, condividendola, è già un anticipo di eternità, di quella eternità che ci sarà definitivamente promessa poi dall’annuncio dell’Evangelo.

Amen.

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